Allen e l'impunità del genio
Frame del documentario di Robert Weide su Woody Allen. ANSA/-BIM- EDITORIAL USE ONLY
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Allen e l'impunità del genio

Il caso Woody Allen e le presunte molestie alla figlia. Quando l'arte protegge il genio

Nessuno la pronunzia, nessuno la riconosce, ma l’accusa è pedofilia, la parola che lo mostrifica e ci ammutolisce, l’abiezione che sconfigge il talento, la colpa che uccide l’opera.

Con la lettera della figlia adottiva Dylan Farrow al Nyt: «Avevo sette anni il mio patrigno abusò sessualmente di me», scompare il cineasta Woody Allen e compare il regista galeotto, il padre imperdonabile, lo sceneggiatore maledetto. Ma qui tutto è addolcito come fu per Roman Polanski già accusato e condannato per stupro, libero, protetto e acclamato come autore fuorilegge. Ed è anche questa una finzione letteraria, quella dell’artista che sniffa trasgressione, che ha confini  più vasti degli altri, il reato come fosse uno dei tanti paradisi artificiali e l’arte la più grande impunità che lo conservi. In nessun paese, in nessuna circostanza l’abuso di Allen sarebbe rimasto peccato e non crimine, la sua accusatrice costretta a difendersi, il colpevole tutelato e la vittima accusata.

Per nessuno sarebbe valso questo comparaggio da Accademy, la stessa che gli ha assegnato il Golden Globe, che oggi eleva Allen e abbassa la figlia a testimone inverosimile. E sono gli stessi intellettuali come clan descritti da Allen: «Gli intellettuali sono come la mafia, si uccidono solo tra di loro» sempre quelli che hanno cominciato a prendersela con l’America colpevole di non comprenderlo a sufficienza, come se le accuse di violenza sessuale fossero una stroncatura. Vale ripetere che neppure il potere e i potenti usufruiscono dei meccanismi di garanzia con cui si protegge l’attore e il poeta, basti pensare alle manette di Dominique Strauss-Kahn, arrestato per violenza, senza essere salvato da Sade, o pensare ancora a qualsiasi professore di provincia che abbia maneggiato diari e seni di adolescenti e quindi infamato, condannato. A nessuno sarebbero stati perdonati i furti, l’ergastolo commutato in libertà di Jean Genet, prosciolto dalla corte perché il «più grande scrittore dell’epoca moderna, instabile, ma con doni straordinari»,  o ancora ridotti a lirismo i giochi con le pistole di Williams Burroughs che uccise la moglie al suono del Guglielmo Tell.

In quale altro caso le norme e i precetti possono essere calpestati come viene fatto dal talento letterario, cinematografico, in quale altro l’immunità è data da un battimani? E anche questa sembra la lotta di classe del ceto culturale di cui parlava il filosofo Pierre Bordieu: la soglia si eleva, i confini si sfumano, l’intellettuale è al di sopra di tutto. Solo per gli artisti la legge non è uguale e in Italia non ci fu critico che considerasse la passione per i “ricetti” di Pierpaolo Pasolini, alla stregua di un vizio. Per tutti, quello di Pasolini era amore cantato, il sesso comprato per migliorare la scrittura: «Lucciola, lucciola vieni a me/ ti darò del pan del re». Con Allen si ripropone il tema del sussiego verso l’artista, la complicità che qui si fa indulgenza, assoluzione dello spettatore. E però in questo pasticcio di adozioni, e di sesso, la nevrosi che è stata la carta d’identità di Allen, oggi è un nodo irrisolto e un’aggravante, il corpo maltrattato della figlia è un copione claustrofobico: «Non mi piaceva mi mettesse la lingua in bocca, quando metteva la testa sul mio grembo nudo e ansimava». Allen non sarà più quello di “Provaci ancora Sam” che derubricava le violenze sessuali come fantasie di ogni donna e che non spaventava perché la goffaggine era la sua risorsa: «Non credo sarai mai violentata, non da me, non con la jella che ho».

Questo Allen invece incupisce e non schiarisce, inquieta e non rilassa, la difesa è una calunnia contro la figlia. Qui c’è un corpo di sette anni: «Mi prese per mano, mi portò in una stanza, mi disse di stendermi, di giocare con il trenino di mio fratello», ed è la solita adolescenza devastata, un diario riempito di disagi alimentari e ossessioni. Tolta la vittima, la perversione è tollerata e considerata necessaria, oggi come in passato, perché ingravida la letteratura, è albumina per il cinema, colore per i pittori. E non si tende a scusare Allen come produttore potente, ma lo si abilità per la sua classe, non conta la sua ricchezza, ma il suo cinema. Le fantasie di Allen non sono considerate malattie ma tentativi, la vita sbagliata è un ciak, la violenza sacrificio utile. Ma in realtà, come lo sarebbe per tutti, quella di Allen è la stessa laidezza, uguale a quella di Arthur Clarke, scrittore di “2001 Odissea nello Spazio”, che abusava di minori e si giustificava peggio: «Se i ragazzini non si preoccupano, la situazione è abbastanza normale». E non si difende ogni volta la letteratura, come si pensa di fare in Francia, quando si pubblica l’elogio del pedofilo, il breviario “Rose bonbon” di Nicolas Jones-Gorlin stampato da Gallimard, così come non si premia la libertà dell’arte assegnando un riconoscimento al saggista francese Gabriel Matzneff che in televisione spacciava ragazzini di dieci anni come conquiste. La trasgressione questa volta non è mettere i baffi alla Gioconda, non è la merda d’artista, non è provocazione ma turpitudine. Su quel corpo di bambina finisce il genio e inizia l’uomo.

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Carmelo Caruso