Così la Cina spiava l’Africa
Dal 2012 al 2017 le comunicazioni digitali del quartier generale dell’Unione africana in Etiopia sono finite sui server cinesi. Pechino nega: “Storia senza fondamento”
In gergo le chiamano backdoor. Si tratta di debolezze create appositamente nei software per trasferire informazioni da una parte all’altra della rete, quasi sempre a scopo di monitoraggio e analisi.
Sono backdooor i buchi aperti dalla NSA nei programmi più usati dagli americani; è una backdoor quella che a gennaio 2017 i ricercatori hanno scoperto su una versione di WhatsApp ed è una backdoor la porta segreta che l’FBI avrebbe voluto che Apple aprisse nei suoi iPhone, per rendere più semplice il prelievo di informazioni degli utenti coinvolti in casi di sicurezza nazionale.
Biscotto cinese
Cosa c’entra l’Africa?
Nel 2012 apre al centro di Addis Abeba l’enorme palazzo in cui ha sede l’Unione africana (UA), punto nevralgico di tutte le decisioni che riguardano i 55 paesi membri. All’interno dell’organo operano comitati tecnici specializzati come la Corte di giustizia, il Parlamento panafricano, il Consiglio di pace e di sicurezza e altre istituzioni, tra cui la Banca centrale africana, il Fondo monetario africano e la Banca degli investimenti. Insomma, un singolo luogo dove si decidono le sorti di un vasto continente.
Gli hacker rossi
La sede della UA è costata oltre 200 milioni di dollari, finanziati totalmente dal governo di Pechino come regalo agli amici africani (in realtà le mire orientali nel Sud del mondo erano conosciute). Il palazzo e i dintorni che lo delimitano sono stati costruiti da una compagnia controllata dalla Cina, che ha persino trasportato dalla patria, come scriveva la BBC, materiali e strutture che ancora oggi compongono il quartier generale in Etiopia. Dopo un anno di indagini, i tecnici africani hanno scoperto che molti dei computer e dei data center installati negli uffici dell’headquarter sono stati per cinque anni, dal 2012 al 2015, vittime di furti da parte di hacker cinesi.
Come facevano
Il primo a lanciare lo scoop è stato Le Monde, che alla fine di questo gennaio ha pubblicato un report puntuale sulle modalità utilizzate dagli hacker per prelevare le informazioni dai sistemi africani. Dopo ogni mezzanotte, ininterrottamente per ben 60 mesi, i server di Addis Abeba, sui quali erano (sono tutt’oggi) conservati i file e i documenti di ogni computer connesso stabilmente alla rete governativa, inviavano copie degli archivi a un’utenza anonima a Shangai, legata alle operazioni cyber-militari di Pechino. Tra i file rubati anche numerose conversazioni audio, ottenute attraverso decine di microfoni piazzati, in fase di costruzione, negli ambienti più privati del palazzo, dove eminenti figure politiche si incontravano periodicamente.
Negare sempre
Nelle due ultime settimane, l’ambasciatore cinese in Africa, Kuang Weilin, ha negato ogni accusa, definendo il reportage di Le Monde “assurdo” e “infondato”, spiegando come la questione creerà sicuramente dei problemi nelle relazioni tra Cina e Unione, dopo anni di avvicinamenti e scambi di favori, come la costruzione di varie zone economiche ad uso e consumo esclusivo di imprenditori e capitali cinesi. La linea è più o meno la stessa che il governo del dragone rosso sta utilizzando per smentire quanto affermano FBI, CIA e NSA e cioè che i cellulari di Huawei e ZTE sarebbero a rischio spionaggio e dunque vanno bannati dagli States.
Curiosamente, le due compagnie compaiono in un documento del 2017 dell’agenzia di analisi McKinsey, in cui si legge come siano proprio Huawei e ZTE, con le loro divisioni che si occupano di costruire antenne e reti di telecomunicazioni, ad aver dato il lancio all’espansione delle aziende tech cinesi in Africa circa un ventennio fa.
Svolta crittografica
A seguito della scoperta del furto, le comunicazioni che viaggiano tra le maglie dell’infrastruttura dell’Unione africana sono ora crittografate e, come conseguenza, non passano più per la rete dell’operatore nazionale Ethio Telecom. C’è da capire cosa se ne sono fatti di un quinquennio di documenti gli strateghi cinesi ma pare che l’Unione africana avesse ben poco da nascondere.
Anzi Moussa Faki Mahamat, Presidente della UA, ha cercato di smorzare le critiche durante una recente visita a Pechino: “Siamo una grande organizzazione internazionale che non si occupa di realizzare dossier di interesse pubblico. Non c’è motivo per cui la Cina volesse spiarci, non c’è nulla da tener segreto”.
Babbo Natale con gli occhi a mandorla
Eppure qualcuno nel palazzo di Addis Abeba non è convinto. Aly-Khan Satchu, analista di Nariboi, ha etichettato l’hack come allarmante, un campanello da tener presente per capire le mosse della Cina nelle politiche globali. “C’è un detto in Africa che recita La Cina è Santa Claus. Non possiamo pensare a qualcosa del genere non devono farlo i nostri politici. Basarsi su un concetto così e molto pericoloso”.