Tinto Brass: l'intervista
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Tinto Brass: l'intervista

Dal lato B di Serena Grandi ai pudori di Stefania Sandrelli, dalle telefonate spinte di Fellini ai privé di Parigi... A 80 anni compiuti, e dopo la malattia che ne limita i movimenti, il regista si racconta (con pochi veli)

Tinto Brass indossa ciabattone di feltro, un pigiama a righe rosse e blu e guarda con voluttà un cartone animato della Pixar in televisione. Accavallare la gamba sinistra sopra la destra è l’unico gesto che le sue estremità di ottantenne compiono ancora con una certa disinvoltura, dopo l’emorragia cerebrale dell’aprile 2010 che per poco non gli ha tolto la memoria e l’uso della parola. «Quando s’è svegliato, l’unica cosa che riusciva a dire comprensibilmente era “come sei bella, come sei bella...”» ricorda Caterina Varzi, avvocato e «psicoanalista dell’amore», che si considera la sua donna sebbene viva in un’altra casa («Tra noi, la possessione intellettuale ha sostituito quella carnale») e abbia da anni un compagno che per Brass, giura, è diventato «come un fratello minore». «Per il resto, se gli dicevi La chiave, Claudia Koll, Stefania Sandrelli, era buio totale, non ricordava nulla» continua Caterina, commossa ma ancora sufficientemente presente da schivare una zampata del maestro, repentina, volta a palparle il seno prosperoso.

È stata lei a raccoglierlo da terra, nel bagno di un hotel di Vicenza, per portarlo all’ospedale della città. Ed è stata ancora lei a chiudersi nel suo archivio per 3 anni andando a ripescare foto, articoli di giornale, copioni, pellicole dimenticate, per riverniciare lentamente di ricordi la mente resettata di Brass. Un processo neurosentimentale tuttora in corso e che ha creato fra loro una curiosa simbiosi: ciascuno termina e chiarisce i pensieri dell’altro, come due cloni, anime gemelle, due piccioncini all’ospizio.

Tinto alza in aria i ricordi, spesso vaghi, poco più che sbuffi di fumo. Caterina (che lui ha ribattezzato con delicata autoironia «la mia musa ermeneutica») circostanzia, incoraggia, spinge: «Ma sì, che facevate lo scambio di coppia, dai, Tinto, racconta al giornalista...». Un lavoro di ricostruzione convogliato ora in un documentario firmato da Massimiliano Zanin (da 10 anni suo cosceneggiatore) e che il 30 agosto verrà proiettato alla Mostra del cinema di Venezia. Un lavoro esplicitamente di riscatto, intitolato IsTintoBrAss, per far conoscere il cineasta politico degli anni Sessanta e Settanta, quello che Umberto Eco chiamava a dirigere documentari per conto della Triennale di Milano e che Alberto Moravia esaltava (anche se per sua ammissione non capiva) sulle colonne dell’Espresso.

Un film strabordante d’interviste rivelatrici a Franco Nero, Gigi Proietti, Gore Vidal, e a un’innamorata Helen Mirren, protagonista del pornokolossal brassiano Caligola: «Tinto marcia a velocità diversa rispetto agli uomini che ho incontrato nella mia carriera» concede la diva «per me lui rappresenta l’amore assoluto per la vita».

Brass, la vita si fa amare anche adesso, chiusi in casa e malati?
Certo. Sono parzialmente invalido, lo so, ma vivo questo momento con semplicità e pazienza. E mi convinco sempre più che la serenità che provo oggi sia conseguenza diretta di come ho vissuto tutta l’esistenza: ho molto goduto, immaginato, immagazzinato, e mi sono espresso senza paura. Ecco perché accetto questa fase difficile e il suo prezzo mi pare equo. Gli anziani arrabbiati con la vita mi fanno pietà.

È un antidoto sufficiente contro la tentazione del suicidio?
Lo pensavo. Eppure, ho molto pensato al suicidio, in ospedale, per notti intere. Poi un giorno è arrivata Caterina con la registrazione del Disertore di Boris Vian, e benché facessi fatica a esprimere i concetti più elementari ho cantato tutte le parole, in francese, non chiedetemi come. Allora ho capito che la vita era ancora aggrappata a me e non voleva mollarmi.

Quindi non finirà tutto con un salto dal balcone, come Mario Monicelli.
Vedremo. A novant’anni è un gesto concepibile, e realizzabile.

Nei momenti difficili le veniva in soccorso il ricordo degli occhi di sua moglie Carla o l’immagine del fondoschiena di una delle sue attrici?
Il culo delle attrici, che domande...

Il più terapeutico di tutti?
Quello di Serena Grandi, senza dubbio. Ma la verità è che molti dei miei personaggi femminili li ho modellati proprio pensando a mia moglie, donna assolutamente libera e scopatrice intrepida. Da ragazzi, a Venezia, l’andavo a prendere in barca all’Harry’s Bar e poi vogavo alla vallesana, che in veneto si dice «schopòn», fino alle secche di San Giorgio. Lì facevamo sesso e poi la riportavo al lavoro. Per tutto il tragitto lei sollevava la gonnellina al vento, per farmi eccitare. Aveva un’immaginazione fervida, la Tinta.

Così fervida che forse, firmando le sceneggiature dei suoi ultimi film, l’ha spinta verso il soft porno piuttosto che verso il cinema erotico...
Beh, non c’è dubbio che quando scrivevo una scena erotica e gliela facevo leggere a lei pareva sempre troppo casta. E aggiungeva particolari.

Parla così spesso di lei come risarcimento per averla tradita tutta la vita?
Macché. Sono stati cinquant’anni bellissimi. Insieme provavamo le scene di sesso da far realizzare agli attori sul set, in modo che al momento cruciale non facessero storie.

Chi è che faceva storie?
Per esempio Stefania Sandrelli, sul set della Chiave. Diceva che certe posizioni, da dietro, erano umanamente impossibili. Allora io chiamavo la Tinta che, da donna a donna, la rincuorava sulla loro fattibilità tecnica.

Fin dove vi siete spinti assieme? Frequentavate locali per scambisti?
Sì, a Parigi. Abbiamo cominciato verso la metà del nostro matrimonio: andavamo al cinema e poi, per glorificare la serata, ci infilavamo in un club privé. Era una sessualità giocosa, la nostra. Dove la gelosia era parte del piacere... Sì, anche se in fondo in fondo la Tinta s’incazzava sempre.

E per lei, invece, la gelosia che forme aveva?
La provavo solo vedendola impegnata con quattro o cinque uomini contemporaneamente. Non so perché, ma lì un senso di fastidio mi coglieva.

In quel groviglio di corpi ha provato anche l’amore omosessuale?
Sì, retroattivo, diciamo. Vedo entrare questa donna splendida, con un culo incredibile, e dopo un po’ iniziamo a fare l’amore. A cose già avviate, mi accorgo che è un uomo. Circostanza che sinceramente non mi ha dato alcun fastidio.

Lei e sua moglie vi dicevate «Ti amo»?
No, non ce lo siamo mai detto. L’amore era il vivere stesso, onorato con così grande entusiasmo.

I suoi genitori le avevano insegnato a non esprimere i sentimenti?
Mio padre era un gerarca fascista che m’ha cacciato di casa a 17 anni cambiando la serratura della porta. Ma già a 14 anni m’ha fatto rinchiudere nel manicomio di San Clemente a Venezia, non ricordo più per quanto tempo, per via di una personalità che giudicava poco equilibrata. Mia madre invece era una donna succube che non mi ha mai capito e mi considerava un irrealizzato: non sono neppure andato al suo funerale.

Il rifiuto dei suoi genitori l’ha fatta soffrire?
Neanche per sogno. La notte stessa della cacciata di casa ho scritto una lettera a Luis Buñuel per dirgli che sognavo di andare a Parigi e di fare il regista. Ovviamente non m’ha mai risposto.

Uno dei suoi attori simbolo, Franco Branciaroli, nel documentario fa capire che dopo «La chiave» lei avrebbe voluto fare altro, e che l’erotismo è stata la sua condanna.
In parte è vero. Ho 40 copioni che non mi hanno mai fatto girare: Odessa, i Borgia, un film su Gabriele D’Annunzio e la presa di Fiume... I produttori sono sempre stati bravi a sfruttare le mie ossessioni, a farmi girare ciò che era più conveniente per loro. Insieme a Caterina credo che trasformerò quelle storie in romanzi.

È vero che Federico Fellini le chiedeva di mandargli le ragazze?
Assolutamente sì. Io gli descrivevo l’attrice e lui, tutte le volte, rispondeva «mandamela, mandamela». Una volta gli ho spedito persino Debora Caprioglio. Non so cosa facessero assieme, ma dopo era sempre molto felice.

Se oggi intercettassero una vostra telefonata, finireste a processo?
Può darsi. Per quel che diceva, sicuramente ci finirebbe Fellini.

Palpando e ruffianando, non s’è mai sentito in posizione di abuso?
È un punto di vista che non m’interessa. Io faccio queste cose con gioia e toccare per me è un tropismo animale. Non chiedo: «Posso?», ma mi spingo solo quando so di potermelo permettere. E di solito alle donne fa piacere.

Perché nei suoi film non ci sono donne di colore?
Non mi eccitano. La fantasia non mi ha mai portato lì.

L’attore sessualmente più dotato che ha lavorato con lei?
Gabriel Garko. Molto pudico, anche: quando non girava, voleva un calzino per coprirsi il pene.

L’attrice che, per così dire, non aveva bisogno di recitare?
Debora Caprioglio. Ma anche Claudia Koll. Entrambe disponibili, totalmente.

Il sesso fatto, e non solo immaginato, le manca?
Soffro il fatto di non poter uscire di casa a cercarmelo. Ma per fortuna ogni tanto vengono qui a trovarmi delle attrici e io improvviso dei provini. Magari chiedo loro di masturbarsi un po’. Mi fanno dei piccoli regali, ecco.

Le fantasie senili sono frustranti?
Sono gioiose! E spesso mi vengono di notte, bellissime. Ma poi sul più bello di solito mi sveglio di colpo, perché mi scappa di andare in bagno.

L’ intervista è conclusa. Mi siedo su una panchina nel giardino di casa Brass, a Isola Farnese, borgo antico e signorile sull’Appia Antica. Caterina esce di casa all’improvviso, agitata: «Il maestro avrebbe qualcosa da aggiungere». Lo ritrovo nella stessa posizione, seduto nell’angolo del divano: «Vorrei che lo scrivesse, se è possibile. Il mio sogno, adesso, è sposare Caterina Varzi. Lo chiedo formalmente davanti al Paese: è la donna che ho amato di più, in tutta la mia vita».

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Raffaele Panizza