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Un sogno chiamato Florida - La recensione

Dall’indipendente Sean Baker arriva un film di un altro pianeta. Umanità stralunata ai margini di Disneyworld. Con il prodigio di un’attrice-bambina

L’intreccio continuo tra la realtà e l’immaginazione, tra la vita quotidiana e la sua proiezione onirica. È il mondo di Un sogno chiamato Florida (uscita in sala il 22 marzo, durata 111’) di Sean Baker, cineasta più indie che mai, autore tre anni fa dell’ottimo Tangerine e, oggi, di questo film d’un altro pianeta. Dove un universo di adulti e, soprattutto, di bambini si manifesta filtrato da una intensa ispirazione – affettiva e sociale - ai margini del parco divertimenti più grande del mondo. Imbarcando poesia e dispensando emozioni in un cinema di imprescindibile spontaneità e umane illusioni che pare costruito dal vero. Ed è, perciò, pieno di vita.

DisneyWorld dunque. A Orlando, Florida. Rigurgitante di famiglie e turisti non per caso. Poco distante, alla periferia del nulla, separato da vegetazione incolta e da un progetto edilizio andato a male, il  Magic Castel Hotel dal nome un po’ beffardo, colorato di viola, a metà strada tra l’albergo di terz’ordine e il residence per inquilini stanziali (almeno finché riescono a pagare l’affitto). Lo governa in modo tutt’altro che intransigente e manageriale Bobby (Willem Dafoe) a capo di un’umanità tormentosa e mezzo diseredata, cui non di rado il volontariato a bordo d’un furgone dispensa generi alimentari.

Quella bambina che vive come una farfalla

Ed è qua che prende forma e moto la vita di Halley (Bria Vinaite), capelli verdastri, un po’ sgangherata, casuale, molto tatuata e seminata di escamotage. Giovane donna ribelle senza scampo che ha il nome d’una cometa e probabilmente lo è. Ragazza madre, forse moglie separata, chissà. Con una figlia di sei anni che è un incanto, si chiama Moonee (Brooklynn Prince) e vive come una farfalla, facendo scorribande e guai coi suoi amichetti Scooty e Jancey (Christopher Rivera e Valeria Cotto), facce impertinenti e delizie sguaiatamente innocenti.

Ottica infantile nel percorso realistico e fantastico

È su di loro che si sposta la macchina da presa inseguendo un tracciato realistico eppure fantastico nel riflesso di quel gioioso parametro infantile, capace di osservare quella effettività concreta e ambientale e modificarla; in termini anche allegorici, come quando Moonee, seduta a cavalcioni su un tronco reclinato, dice a Scooty: “Sai perché questo è il mio albero preferito? Perché è capovolto e continua a crescere”.

La vita allegramente tribolata della giovane madre

Tutto in una frase. Forse anche il film. In bilico tra due dimensioni, il vero e il falso, l’autentico e il contraffatto. Il Magic Castle Hotel coi suoi colori pastello da una parte e DisneyWorld dall’altra. In mezzo pure l’esistenza allegramente tribolata di Halley, che per sbarcare il lunario, pagare la pigione al paziente Bobby o pranzare fuori con la figlia riceve in casa qualche ometto. Cosa che non sfugge ai vicini e alle webcam di sorveglianza tanto che alla porta di casa di presentano poliziotti e assistenti sociali con l’obiettivo lusingatore, untuoso e crudele di strappare Moonee alla madre e darla in affidamento.

Regia, fotografia e attori in prospettiva “cosmica”

Il finale che si prepara è un altro gioiello del racconto. Allusivo e lirico tra le mani di un regista che già in Tangerine aveva colpito esplorando i territori subculturali di Los Angeles e qui, pur restringendo il perimetro ambientale, dilata osservazione ed esplorazione alla ricerca di una prospettiva “cosmica” se non addirittura metafisica restando vincolato ad un reale ben circoscritto.

Fiancheggiato, in questa rappresentazione sospensiva, dalla fotografia e dagli equilibri cromatici del talentuoso innovativo messicano Alexis Zabé (Jim Jarmusch tra i suoi ispiratori); e naturalmente dagli attori, con Dafoe giustamente candidato agli Oscar per suo Bobby di generosa energia, chiamato colà a gestire la povertà diffusa in un quotidiano inevitabile e pacatamente fatalistico; con la stralunata Vinaite; forse su tutti con la piccola Prince, impunita forever e davvero meravigliosa – almeno quanto la Addie Loggins/Tatum O’Neal del Paper Moon di Peter Bogdanovich - icona di un film destinato alla memoria.

Per saperne di più

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Cinema Distribuzione, ufficio stampa film Studio Punto e Virgola, Digital PR Ilaria Di Milla e Deborah Macchiavelli
Halley (Bria Vinaite) con sua figlia Moonee (Brooklynn Prince)

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Claudio Trionfera

Giornalista, critico cinematografico, operatore culturale, autore di libri e saggi sul cinema, è stato responsabile di comunicazione per Medusa Film e per la Mostra del cinema di Venezia

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