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The Neon Demon, le fameliche attrazioni del glamour – La recensione

Nicolas Winding Refn autore di un horror rarefatto, sanguinoso e visionario. Film incompiuto riscattato in parte da un affascinante spettacolo visivo

Nicolas Winding Refn è uno di quei cineasti destinati spesso a far discutere. E questo suo nuovo film The Neon Demon (in uscita l’8 giugno), come si dice, non aiuta. Soprattutto a sciogliere i nodi di un talento che pare essersi espresso totalmente con la soprannominata Trilogia del pusher, Bronson e il celebratissimo Drive ma ha lasciato qualche buco con altre opere come Bleeder, Fear X, Valhalla Rising e Solo Dio Perdona.

Insomma una carriera già densa e frastagliata, di certo tonica, suggestiva, a tratti provocatoria che l’autore danese gestisce senza fare una piega. E precipitandosi oggi nel mondo della moda, meglio, nell’impatto che con quel mondo ha la giovanissima modella Jesse (Elle Fanning) arrivata a Los Angeles dalla provincia con i suoi grandi occhi del colore del mare e la sua freschezza di rugiada. Tanto speciale, sfavillante e magica nella sua innocenza virginale da conquistare subito la scena per una irresistibile ascesa da top model: da una parte attirando attenzioni addirittura fameliche nella truccatrice Ruby (Jena Malone), nella talent scout dell’agenzia Jan (Christina Hendricks) e nel vipereo fotografo Mickey (Charles Baker) che le spalancano definitivamente la porta del cielo fashion; dall’altra scatenando le gelosie e la rivalità di altre modelle del clan come Gigi (Bella Heathcote) e Sarah (Abbey Lee), ossessionate dalla giovinezza e dalla bellezza di Jesse che rischiano di far finire loro nella spazzatura.

Quei fluidi misteriosi

Fatto sta che la nuova arrivata, divenuta ambiziosa, travolge ogni ostacolo, chissà, protetta dai fluidi misteriosi emanati dai suoi custodi e tutori, sempre più inquietanti, non meno di Hank (Keanu Reeves), brutale padrone del misero motel dove alloggia; e salvo Dean (Karl Glusman), fotografo innamorato (l’unico ad esserlo davvero) di lei. Insomma una folla di figure e di segni che, sotto la scorza della ferocia così “normale” in quel mondo competitivo e un po’ sudicio,  sembrano imboscare qualche ombra d’occulto. Solo sensazioni? Chissà.

Proviamo piuttosto a immaginare che attorno alla fanciulla, peraltro sempre più invasata, danzino come in un sabba invisibile dei soggetti metà dèmoni e metà vampiri che davanti a tanta nuova freschezza  facciano slurp e non vedano l’ora di divorarsela, facendola propria e non solo metaforicamente. D’altra parte Jesse,  cosciente o meno della tresca, dice di quella compagnia e delle sue top model concorrenti: “Io non voglio diventare come le altre, sono loro che vogliono diventare me”.

Il culto dell’attrazione fisica

Di glamour si muore? Può darsi. Anche di troppa bellezza. Winding Refn, per dar seguito all’interrogativo, sembrerebbe inerpicarsi lungo i sentieri della moda allungando la serie di film dedicati, tanto cospicua da diventare genere. In verità è solo un pretesto. Per far respirare i concetti classici dell’essere e dell’apparire, dell’autenticità e della contraffazione, della frenesia dei consumi, della caducità e dell’eternità, dello spossato e a volte struggente culto dell’attrazione fisica che l’estenuante, quasi ossessiva presenza scenica di specchi spalleggia in un perseverante e perfino mistificatorio gioco di prospettive.

Simbologia fitta ed ermetica

Di tutto questo il film si nutre, come in un sinistro rito cannibalico, adeguando la rappresentazione al passaggio e al trasferimento di concetti “altri” rispetto all’immagine riflessa. La simbologia, perciò, è fitta, a tratti ermetica e torbida nel tormento dell’artifizio. Così che tra le sue fenditure si materializzano gli incubi peggiori: rimorchiando il racconto sulle terre funeste di un horror rarefatto e pur sanguinoso, a momenti sull’orlo del kitschig, della necrofilia e dello splatter. Senza che però un’idea strutturale rigorosa, una definizione narrativa e di contenuto arrivi a dimensioni compiute ed armoniche. È evidente il compiacersi supremo di una regia che fa del narcisismo voyeuristico un vero e proprio stile narrativo e visuale. Un David Lynch al cubo, si direbbe. O un Darren Aronofsky al quadrato. Con qualche globulo di Cronenberg. Fate voi.

Si firma, il cineasta, con le sue iniziali. NWR campeggia in stile Yves Saint Laurent sui titoli di testa, ad annunciare un film griffato visti, appunto, temi, circostanze ed ambienti. Ci si augura, almeno, che sia così e che l’(auto)ironia abbia guidato la mano di Winding Refn – altrimenti ci sarebbe da preoccuparsi - aggiungendo ulteriore materia di riflessione sui suoi propositi. Che, nell’arco della storia, si esprimono attraverso intermittenti ma regolari rimandi all’egemonia del sesso nelle vite di ciascuno, o costanti richiami al mito – da una parte inseguito e dall’altra insidiato - della bellezza e della gioventù. Qualità che, com’è noto, si sposano spesso con l’ammissione alle cose migliori della vita, fama e potere compresi. Non una grande novità o intuizione creativa, peraltro.

Tra il bluff e l’ingegno

Una denuncia? Potrebbe darsi di sì. Ma il film, più che affondare la lama nelle profondità di un ambito e di una società marcescenti e degenerate sembra sguazzare, spassandosela e compiacendosene, nella stessa poltiglia d’abiezioni che vorrebbe dannare. Chissà, forse facendosene interprete per consegnarne una dimensione ancora più ribollente e repulsiva. Non aiutato in ogni caso da dialoghi spesso banali, sempliciotti e fin troppo essenziali, pure se, lo si capisce benissimo, non sono quelli il veicolo preferenziale e decisivo dell’autore. Il quale continua a viaggiare in bilico sul crinale aguzzo che separa il bluff dall’ingegnoso manufatto, senza fornire accettabili indizi per svelare da quale parte il percorso finirà.

Arte elettronica e colori accecanti

Ovunque sia l’essenza della cosa e al di là di ogni possibile, direi inevitabile querelle sulle qualità di The Neon Demon, lo spettacolo visivo che questo film riesce generosamente a prolificare non può non farlo considerare tra quelli da vedere. Sia per continuare a pedinare la traiettoria di un autore originale, sia per affidarsi e rilasciarsi al suo frastuono onirico, al delirio debordante, alle angolazioni prospettiche, ai cromatismi strepitosi che nel segno dell’arte elettronica manipolata col pop rovesciano sullo schermo secchiate di fucsia, blu, porpora, rosa shocking, bianchi accecanti, arancio, rosa melanzana, bagliori verdastri; e, ancora, simboli oscuri, costumi vistosi e seduttivi, incubi e affanni in un passo visionario capace di affascinare anche quando, narcisisticamente, si allunga su inquadrature di particolare e gongolante magnetismo.

Tra i molti attori utilizzati per raccontare la storia, piacciono in particolare Elle Fanning che gestisce la figura protagonista di Jesse con dolcezza cadaverica e luminosi occhi sgranati; e Jena Malone nella parte della truccatrice Ruby, losca, impalpabile e larvale, traghettatrice diabolica del vizio e dell’arcano.

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Fulvio e Federica Lucisano, Koch Media, Ufficio stampa Giulia Martinez, Ufficio stampa Koch Media Paola Menzaghi, Copyright Gunther Campine Ressources
Jesse (Elle Fanning) in scena con Sarah (Abbey Lee), una delle top model sue "concorrenti" che le invidia la giovinezza

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Claudio Trionfera

Giornalista, critico cinematografico, operatore culturale, autore di libri e saggi sul cinema, è stato responsabile di comunicazione per Medusa Film e per la Mostra del cinema di Venezia

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