Frankenstein Junior, 30 anni fa moriva Marty Feldman
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Frankenstein Junior, 30 anni fa moriva Marty Feldman

Il 2 dicembre 1982 un attacco di cuore stroncava l'attore inglese, entrato nella storia del cinema grazie al capolavoro di Mel Brooks, nel quale interpretava l'indimenticabile servo "Aigor"

Io, Marty Feldman, lo conosco da una vita: ci siamo incontrati un pomeriggio d'estate di tanto tempo fa, al cinema. Lui era sullo schermo, io in platea con un paio di amici. Siamo usciti con il mal di pancia e le lacrime agli occhi dal ridere: avevamo appena visto Frankenstein Junior di Mel Brooks, in cui Feldman faceva veramente morire. Era il 1975 e noi eravamo praticamente dei bambini, ma non è che gli adulti in sala fossero molto più composti. Erano tutti sfatti a forza di sganasciare, e il merito era soprattutto suo, del nostro nuovo amico Marty.

Non so voi, ma io non ho mai conosciuto qualcuno che abbia parlato male di Young Frankenstein (questo il titolo originale), un mix senza precedenti di genio e cretineria che ha rivoluzionato la storia del film comico: non è solo cinema, è  una categoria dello spirito, l'espressione artistica più alta di una banda di pazzi che ha dilagato negli anni '70 agli ordini di un regista che non ha un gran bisogno di presentazioni.

Con tutto il rispetto, però, gli strepitosi film di Mel non sarebbero stati gli stessi se non avesse avuto a disposizione un'arma comica più letale del polonio: mister Feldman, l'unico attore che aveva gli occhi fuori dalle orbite anche quando non era sorpreso. Colpa di gravi problemi alla tiroide che, uniti a un naso che risentiva della sua passione giovanile per il pugilato, lo avevano dotato di un aspetto, diciamo così, peculiare. Un look, il suo, assolutamente unico, proprio come la sua vis comica.

Se oggi parliamo di questo autentico fenomeno è perché sono passati trent'anni esatti da quando un attacco cardiaco se l'è portato via, il 2 dicembre 1982. Aveva solo 49 anni, e stava girando a Città del Messico una commedia non proprio indimenticabile (Barbagialla, il terrore dei sette mari e mezzo). Già provato da una grave intossicazione alimentare, causata da un piatto di frutti di mare andati a male, fu tradito dal cuore pochi giorni dopo.

Mel Brooks, che come abbiamo già detto lo conosceva piuttosto bene, ha raccontato che il suo attore preferito non era propriamente un salutista: fumava dalle 80 alle 100 sigarette al giorno, beveva litri di caffè nero e, come molti vegetariani, compensava la mancanza della carne con un consumo massiccio di uova e formaggi. Che siano state queste abitudini a ostruirgli le arterie è tutto da dimostrare e poi, diciamo la verità, che importa? L'unica cosa certa è che, quando l'attore è uscito di scena, con largo anticipo rispetto al previsto, il suo personaggio più famoso era già da tempo entrato nella leggenda.

Parliamo ovviamente dello stralunato servo Igor (anzi, “Aigor”): una creatura surreale, francamente orribile, tutta vestita di nero e con una gobba che a seconda dei momenti si sposta inspiegabilmente da destra a sinistra e viceversa. Più che un uomo, un mistero, che con la sua vocetta fessa distilla freddure raggelanti come l'ormai storica "lupo ululà, castello ululì". L'irreprensibile dottor Fredrick Frankestein (Gene Wilder, altro fedelissimo di Brooks), nipote del famigerato barone Viktor, se lo trova davanti non appena giunge in Transilvania, dove si è recato per prendere possesso del castello di famiglia, ricevuto in eredità. Volonteroso ma terribilmente pasticcione, Igor affiancherà con risultati scoraggianti il giovane medico che, nonostante lo sdegno tante volte sbandierato verso i turpi esperimenti dell'avo, alla fine non resiste alla tentazione di seguirne le orme, creando a sua volta una creatura mostruosa...

Inutile aggiungere altro, se non un cenno agli irresistibili comprimari del film, dalla bella Inga (Teri Garr) al Mostro (Peter Boyle), dall'esuberante Elizabeth (Madelin Kahn) all'arcigna Frau Blücher (Cloris Leachman), il cui solo nome fa nitrire di paura i cavalli. Al di là del notevole successo commerciale (costato tre milioni di dollari, il film ne incassò 90 solo negli Usa), Frankestein Junior ha conquistato in brevissimo tempo lo status di cult movie: girato in un suggestivo bianco e nero che stride volutamente con i toni sgangherati del copione, utilizza in alcune sequenze gli stessi attrezzi di scena usati nei film degli anni '30 ai quali fa il verso.

Anche per questo motivo film, regista e interpreti escono in un lampo dalla loro epoca per entrare nella cerchia degli immortali. E pensare che in Italia, prima di questa apparizione folgorante, Feldman non lo conosceva nessuno, sebbene avesse alle spalle una lunga e gloriosa carriera televisiva in patria. L'aveva avviata giovanissimo quando, oltre agli studi, aveva abbandonato anche il sogno di fare il trombettista jazz. Si era reso conto, inizialmente a malincuore, che il suo vero talento era un altro: far ridere, prima come autore radiofonico e poi come conduttore televisivo. Fu negli anni '60 che, colpito dal Morbo di Basedow-Graves, subì una notevole trasformazione facciale: una novità assai sgradita, che però artisticamente si rivelò provvidenziale. Dopo altri successi sul piccolo schermo, finalmente arriva l'occasione della vita: dopo il boom nei panni di Igor, Marty rimase in contatto con i suoi compagni d'avventura, girando Il fratello più furbo di Sherlock Holmes (1975), diretto da Gene Wilder, e L'ultima follia di Mel Brooks (1976), del quale penso di poter omettere il regista. Dopo l'esordio dietro la macchina da presa con un'altra parodia (Io, Beau Geste e la Legione straniera, 1977), della carriera di questo straordinario mattatore resta da ricordare, purtroppo, solo il tragico epilogo.

Vista la vena sarcastica del personaggio in questione, risparmiamo sulla retorica e ricordiamolo invece con una delle battute che scandirono una delle sue ultime interviste: "Sono troppo vecchio per morire giovane, e troppo giovane per crescere". La sua tomba si trova al Forest Lawn Memorial Park di Los Angeles, accanto a quella del suo mito, Buster Keaton. Il ghigno di "Aigor”, invece, fortunatamente non è mai andato via.

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Alberto Rivaroli