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Denial, la verità negata: il fantasma della Shoah – La recensione

Storia vera di un processo sull’autenticità dell’Olocausto. Lo scontro fra una scrittrice, Deborah E. Lipstadt e un negazionista, David Irving

Cronaca giudiziaria. Più vera che mai. A tinte drammatiche forti e con intensi drammi personali. Denial – La verità negata  (dal 17 novembre in sala) di Mick Jackson, regista inglese 73enne più televisivo che cinematografico ma autore nel ’92 dell’acclamato Guardia del corpo, racconta il processo, meglio, la contesa epocale che alla fine degli anni Novanta oppose la scrittrice, storica e professoressa americana.

Il libro con Mondadori
Teatro della disputa la corte di giustizia londinese, davanti alla quale Lipstadt (nella sua parte Rachel Weisz) viene trascinata da Irving (Timothy Spall) che accusa lei e la sua casa editrice Penguin Books di diffamazione. Sul piatto l’Olocausto, che Irving in gran parte nega: da una parte in difesa di Hitler, dall’altra parte definendolo una bufala ordita dagli ebrei  per trarne ricchezza da destinare alle casse dell’allora nascente stato d’Israele.

Figurarsi la foga con la quale, contro di lui, si scaglia Deborah, ebrea a sua volta e autentica pasionaria della Shoah. Tanto feroce, la sua critica a Irving - considerato un campione della corrente negazionista – da beccarsi una pesante querela attraverso la quale il saggista britannico, assai sicuro di sé, la fa volare dagli Stati Uniti a Londra per vivere un processo quasi surreale, banale nell’impulso ma di enorme portata nelle conseguenze. Potenziali ed effettive.

Il film è la storia di questo processo, raccontato dalla stessa Lipstadt (che collabora anche alla sceneggiatura) nel suo libro History on Trial: My Day in Court with a Holocaust Denier che adesso esce anche in Italia con lo stesso titolo del film per i tipi di Mondadori. Dibattimento difficile e periglioso, condotto per la protagonista da uno stratosferico team di avvocati tra i quali il leggendario Richard Rampton (Tom Wilkinson) e il giovane arrampicatore Anthony Julius (Andrew Scott), già noto per aver difeso Lady Diana nella sua causa di divorzio dal principe Carlo, mentre Irving, spavaldamente, si difende da solo.

La strategia vincente
Un gioco di strategie. Che fa viaggiare il racconto tra Atlanta, Cracovia, Auschwitz e Londra e impone a Deborah Lipstadt di non testimoniare a costo, conoscendone l’arcigna combattività, di mordersi la lingua. Il suo silenzio (e quello dei tanti sopravvissuti che vorrebbero dire la loro), le intimano i legali, “è il prezzo da pagare per vincere”. Tattica appunto vincente, come narrano le cronache di un processo capace, per sua natura, di catapultarsi al centro dell’interesse e della voracità dei media. Con Irving a farsi male da solo e con Lipstadt a tripudiare riconfermando, se mai ve ne fosse stato il bisogno, la verità della Shoah.

La sentenza al centro di tutto
Detto questo, al di là delle proposizioni del libro e dello spirito indomito di Deborah  E. Lipstadt, sarebbe limitante e comunque approssimativo liquidare questo Denial come un film “sull’Olocausto” o “sul negazionismo”. Il nocciolo, piuttosto, sta nella sentenza del giudice unico Sir Charles Gray (Alex Jennings), che oltre a constatare certe perversioni politiche di Irving e le sue squadernate simpatie per vetero e neo nazisti che lo portano ad essere “un attivo negatore dell’Olocausto”, lo condanna soprattutto per aver con “le sue ragioni ideologiche continuativamente e deliberatamente manipolato e alterato l'evidenza storica".

La discriminante è, per semplificare, la buona fede. Non presente, con ogni evidenza, negli atti e negli scritti di Irving.

Il quale dimostra di essere un gran furbacchione, di una scaltrezza un po’ rancida ma efficace, specie per imporsi a livello di simpatie popolari. Dunque un osso molto duro da rosicare. Cade, però, proprio sulla mancanza di buona fede, perciò sulla presenza, dominante e determinante, del suo contrario. Differenza significativa in una dimensione morale. Ancora di più in una sfera giudiziaria che basa la sua sentenza stabilendo, appunto, su quale dei due versanti il saggista inglese si arrampichi per dimostrare le sue “verità”.

Contrasti e riflessioni
Giocando ampiamente su questo termine, per molti versi più raffinato e convincente, da un punto di vista cinematografico, del tema stesso del contendere, la regìa riesce a costruire una bella sequenza di contrasti e di corrispondenti riflessioni ponendo via via il sentimento contro la logica, l’impeto contro la razionalità, l’irruenza contro l’intelligenza, infine la verità contro la menzogna. Una serie di antitesi e di tensioni che scaturisce dall’evoluzione di dei personaggi e dalle situazioni che si determinano, arrivando alla conclusione che la verità storica non si costruisce sulle tesi ma sui fatti; e che un processo non può avere una funzione terapeutica.

Su queste basi il film riesce a cogliere i suoi migliori esiti in una tenuta emotiva sempre generosa e robusta nonostante un percorso narrativo ovviamente scontato nel finale; e a lambire le caratteristiche più concrete ed effettive del legal movie col contributo di una tensione molto sostenuta senza peraltro abbandonare una scelta di oggettività legata al rispetto degli eventi accaduti.

La personalità degli attori
Determinante, in questa direzione, il concorso di attori dall’enorme personalità, a cominciare, è logico, dalla protagonista Rechel Weisz, una irreprensibile, tignosa, a volte pedante Deborah Lipstadt, capace di ammorbidirsi col progredire del processo e affidarsi – mai troppo docilmente, però – all’esperienza del suo staff legale: dove spicca l’entità maestosa di Tom Wilkinson calato nella toga e sotto la parrucca candida dell’avvocato Rampton. Grande, Wilkinson, anche fuori dall’aula, incappottato nella puntigliosa perlustrazione di una Auschwitz spettrale, livida, ghiaccia e risonante di gemiti remoti.

Ugualmente gigantesco e carico di sfumature Timothy Spall nella parte di Irving, spregevolmente ammaliatore e bravissimo a dimostrarlo. A proposito: per chi volesse conoscere i destini del vero David Irving, tuttora vivente a 77 anni, si aggiunga che nel 2005 fu arrestato in Austria e l’anno successivo venne condannato a tre anni di reclusione per apologia del Partito Nazionalsocialista dei Lavoratori Tedeschi. Dopo oltre un anno di carcere tornò in libertà con una sentenza ottenuta in Appello.

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Cinema Distribuzione, Ufficio stampa Punto e Virgola
L'attore Timothy Spall interpreta la figura del negazionista inglese David Irving

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Claudio Trionfera

Giornalista, critico cinematografico, operatore culturale, autore di libri e saggi sul cinema, è stato responsabile di comunicazione per Medusa Film e per la Mostra del cinema di Venezia

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