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Casey Affleck: "Alle donne bisogna dare più potere"

Dopo il divorzio e le denunce per molestie sessuali l'attore torna con "Light of my life" un film dedicato alle donne

«In un mondo di guerre e rivalse, le donne hanno secondo me il ruolo di equilibratrici. Più potere hanno, più c’è possibilità di risolvere conflitti e frenare l’aggressività collettiva».

A parlare così è Casey Affleck, l’attore premio Oscar 2017 per Manchester by the sea, dal 21 novembre nei cinema italiani anche nelle vesti di produttore, sceneggiatore e regista grazie a Light of My Life. Racconta la storia di un padre impegnato a proteggere, e portare in un luogo isolato, la figlia undicenne in un mondo in cui non esistono quasi più donne a causa di un misterioso virus. «L’ambientazione è fantascientifica, ma i contenuti universali. Non mi interessava la spettacolarizzazione, ma approfondire il rapporto tra un padre e sua figlia, un argomento che, nonostante abbia due figli maschi, mi riguarda da vicino» ci racconta in una camera dell’Hotel De Rome durante la Berlinale dove il film è stato presentato in anteprima europea.

È l’anno, si spera, della «rinascita» per Casey Affleck. Dopo la statuetta, l’attore 44enne ha dovuto fronteggiare sia il riemergere delle accuse di molestie sessuali della produttrice Armanda White e della fotografa Magdalena Gorka, entrambe sul set di Io sono qui (2010), sia il divorzio dopo 11 anni di matrimonio da Summer Phoenix, madre dei suoi due figli e sorella dell’ex migliore amico Joaquin Phoenix. «La mia colpa è aver tollerato e non arginato un contesto di lavoro non sano, con troppe feste. Ora che ci siamo lasciati questa storia alle spalle possiamo andare avanti con le nostre vite» ha dichiarato recentemente all’Associated Press riferendosi alle denunce la cui conclusione è arrivata grazie a un patteggiamento extragiudiziale.

A noi, durante l’intervista, rivela di come il film, che sembra una metafora femminista sull’importanza delle donne, sia in realtà nato nella sua testa già diversi anni prima dell’epoca del #MeToo. 

«Come si può essere contro un movimento del genere o contro l’idea che ogni luogo di lavoro debba essere un posto dove chiunque si possa sentire a proprio agio? Per me non sono novità. Da bambini mia madre, sia prima che dopo il divorzio, ci vietava la visione di tutto ciò che riteneva sessista, come il telefilm Hazard. Io e mio fratello siamo cresciuti con questi valori. Il film comunque è nato tempo fa, quando il mio primo figlio aveva cinque anni. Solo in un secondo momento ho deciso di virare il tutto al femminile, adattando dialoghi e contesto».

Considerando Io sono qui un documentario, questo è il suo debutto da regista di un film di finzione: cosa l’ha convinta a portare avanti questo progetto invece che altri?

Erano diversi anni che volevo rimettermi dietro la macchina da presa ma, o perché il budget  necessario era troppo alto o perché dovevamo aspettare che l’attore protagonista si liberasse da alcuni impegni, continuavo a rinviare. Così ho deciso per una sceneggiatura che avevo scritto anni prima, una storia che potevo interpretare io stesso e fosse allo stesso tempo unica e essenziale.

Quali sono stati i suoi punti di riferimento durante le riprese?

Da una parte sono un fan di pellicole con ambientazioni apocalittiche come World War Z, Mad Max e I Figli degli uomini, dall’altra però il tono qui è più drammatico. E per questo ho tenuto in mente il bellissimo Ida di Paweł Pawlikowski, premio Oscar per migliore film straniero nel 2015. Molto però è semplicemente frutto della mia fantasia.

I primi minuti di Light of My Life sono dedicati a una favola che il suo personaggio racconta alla figlia. E che sembra un film a parte...

Si può dire che un po’ lo sia: è una favola della buonanotte che ho raccontato, migliorandola di volta in volta, ai miei figli quando erano più piccoli (ora hanno 15 e 11 anni, ndr) e alla fine mi sono convinto a metterla per iscritto. Per una serie di coincidenze è arrivata anche alla Warner Bros che voleva farne un cartone animato. Alla fine ho preferito inserirla nel film per mantenerne la sua forza legata alla voce. Le immagini che evocano devono essere solo il frutto di chi la ascolta.

Qual è il tema che più le interessa mostrare in questo film?

Ho cercato di creare un contesto originale per indagare sul rapporto tra un genitore e un figlio. È una relazione unica in ogni famiglia, tanto intensa quanto ricca di dinamiche interne, spesso anche contraddittorie, che non si finisce mai di osservare o studiare. Da quando sono diventato un genitore divorziato, che quindi vive i propri figli solo in giorni specifici o al telefono, sento tutto in modo ancora più viscerale.

Che tipo di genitore è?

Credo di essere un padre che lascia crescere i propri figli stimolandoli a lottare e a farsi valere. Da una parte cerco di guidarli e proteggerli, dall’altra li invito a dialogare il più possibile, a essere equilibrati e indipendenti nei giudizi. È il tipo di educazione che anch’io e mio fratello Ben abbiamo ricevuto quando eravamo piccoli.

Perché lei e suo fratello avete scelto la carriera cinematografica anche se nessun altro della vostra famiglia lo aveva fatto prima?

Mio padre ha fatto dall’elettricistaal carpentiere. Mia madre era una maestra. Nessuno dei due aveva mai sognato di lavorare nel cinema. Se abbiamo iniziato questa carriera è stato soprattutto grazie a una casting director, una cara amica di mia madre. È lei che, fin da bambini, ci diceva dove e quando c’erano provini. Mia madre comunque ci ha fatto crescere in un contesto molto artistico, mostrandoci film e portandoci spesso a teatro. Dopo ci sono stati anche momenti in cui temeva che il mestiere di attore avrebbe significato fare la fame. Ma ci ha sempre sostenuti e spinti a rischiare.

Come si comporterà se i suoi figli le dicessero di volere tentare una carriera nello spettacolo?

Per ora direi che non sono molto interessati. Di certo non lo sono ai miei film. Non sempre li vedono e a volte lo fanno a puntate, magari in due giorni. Ogni tanto però sono molto partecipativi, prendono note sui personaggi e poi mi chiedono come e perché si sono evoluti in una determinata maniera. Vedremo, non so come reagirò quando mi diranno cosa vorranno diventare da grandi. Se sono convinti della scelta, li appoggerò senza fare nessun calcolo.

È cambiata la sua vita da quando ha vinto l’Oscar come migliore attore protagonista?

È un periodo in cui credo molto nelle mie qualità recitative e, di conseguenza, mi trovo sempre più a mio agio a fare l’attore. Vorrei lavorare con diversi registi che stimo e, nello stesso tempo, portare avanti altri progetti in cui credo, non so se da regista, produttore o attore. Vedremo se ci riuscirò. Io, di mio, ce la metterò tutta.                  

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Andrea D'Addio

Andrea D'Addio, nato a Roma nel 1982 vive da marzo 2009 a Berlino da cui scrive di politica ed economia per Panorama e di cinema e musica per TuStyle, Io Donna e varie altre riviste comprese, ogni tanto, quelle tedesche (Bild am Sonntag, Welt Kompakt). Ha un blog di lifestyle berlinese, Berlino Cacio e Pepe ormai punto di riferimento per la comunità italiana in Germania ed una segreta, ma non troppo, passione per Philip Roth e Jeffrey Eugenides. La sua seconda passione è il calcetto, tanto che è allenatore e giocatore di una squadra berlinese più che mai melting pot.

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