Capiamo se il conflitto è tossico

Il conflitto è tossico? Ovviamente la risposta che viene in mente a tutti è SI! Se il conflitto è veramente il “male assoluto” perché in molte equipe di lavoro all’avanguardia viene considerato un’opportunità di crescita? La risposta è più semplice …Leggi tutto

Il conflitto è tossico? Ovviamente la risposta che viene in mente a tutti è SI!

Se il conflitto è veramente il “male assoluto” perché in molte equipe di lavoro all’avanguardia viene considerato un’opportunità di crescita? La risposta è più semplice di quanto non sembri: il conflitto non è di per sè tossico. Tossico può essere il modo con il quale noi lo affrontiamo! Un livello fisiologico e sano di confittualità stimola il lavoro di gruppo e non lede il tessuto sociale.

Avete mai sentito parlare del “conflict manager”? Detto così sembra il lavoro più figo dell’universo. Credo che se avessi saputo dell’esistenza di tale professione da bambino avrei voluto farla (anziché l’astronauta –imperatore).

In alcune aziende è presente la “stanza del conflitto”. Che cos’è? Uno spazio nel quale, con l’aiuto di un mediatore (il confict manager appunto) due o più soggetti si confrontano. Questa metodologia risolve sempre ogni problematica? Ovviamente il termine “sempre” non è compatibile con l’umana natura, ma la maggior parte delle volte coloro che escono dalla stanza del conflitto una soluzione ce l’hanno. Quindi la mediazione consente a tutti di vincere? Ovviamente… No!

Se vivessimo in una terra incantata, popolata da fatine e gnomi, probabilmente il conflitto non vedrebbe vinti o vincitori. Alla fine troveremmo una soluzione che rende felici tutti. Nella realtà non è facile trovare la soluzione che dà a tutti la vittoria. Una cosa è certa tuttavia: se non ci sediamo con calma ad un tavolo e ci confrontiamo serenamente , faremo poca strada. Lo scopo del mediatore è quello di scovare la soluzione migliore senza che l’emotività ci renda incapaci di vedere oggettivamente il problema… E quindi anche una possibile risoluzione!

Insomma da incazzati non risolviamo proprio niente. Com’è possibile quindi ridurre i livelli di emotività nel conflitto?

Per rispondere a questa domanda voglio prima porne un’altra: E’ possibile de-emozionalizzare un conflitto? In altre parole, è possibile confrontarsi senza incazzarsi?

La risposta è sì, ma non sempre la strada è in discesa. Tutti noi abbiamo presente cosa accade quando il nostro istinto prevale nella “pacifica” gestione del conflitto. Agiremmo come farebbe Fred Flinstones: con la clava.

In quale punto del confronto perdiamo il lume della ragione? La soluzione è più semplice del previsto: quando dalla causa oggettiva (e risolvibile) del conflitto ci spostiamo sugli aspetti personali del nostro interlocutore.

Ovviamente dubito che nei vostri scontri quotidiani disponiate di un mediatore che mantiene il conflitto centrato solo sul problema oggettivo. Con le strategie che andremo a trattare spero di fornirvi degli strumenti efficaci per la gestione del conflitto… Ed anche qualche spunto di riflessione sulla vostra modalità attuale.

Ebbene, se c’è qualcosa che ci fa perdere proprio la testa è una bella etichetta!

Non sto parlando di un’etichetta positiva ovviamente. Quando qualcuno, in modo più o meno implicito, ci attribuisce delle caratteristiche negative ci incazziamo. Nella maggior parte dei conflitti uno dei due prima o poi perde di vista la causa del conflitto e si concentra sull’appiccicare una bella etichetta al suo interlocutore.

Quella che quindi potrebbe essere un’occasione di confronto e scambio diventa uno scontro senza esclusione di colpi. Lo scopo non sarà più quello di risolvere la divergenza, ma quello di mettere a tacere colui che da interlocutore è stato identificato come un avversario.

Facciamo un po’ di esempi pratici?

La differenza fra un capo illuminato ed uno molto meno illuminato è, per esempio, nel modo in cui vengono fatti notare gli errori commessi. Se un dipendente arriva tardi sul lavoro il modo per fargli notare il problema potrebbe essere: “Sei arrivato in ritardo oggi!” oppure “Sei un ritardatario!”.

Nel primo caso viene fatto notare al dipendente un dato oggettivo. Nel secondo caso invece il soggetto viene giudicato.

Ovviamente anche la dimensione implicita della comunicazione deve rispecchiare quella esplicita. In altre parole se guardo il soggetto in questione con la faccia da schiaffi è superfluo cosa gli sto dicendo. Si irriterà ugualmente!

Facciamo un altro esempio. Un incarico lavorativo non è andato a termine come sperato a causa della distrazione di qualcuno. Il disappunto potrebbe essere esplicitato nei due seguenti modi: chiedendo quali sono i problemi che hanno portato a tale distrazione o etichettando il dipendente (magari in presenza di altri) come una persona approssimativa e poco professionale.

Nei due esempi riportati quando la comunicazione è catalizzata sull’errore il conflitto viene gestito in modo efficace. Nel momento in cui invece etichetto come “ritardatario” o “negligente” il lavoratore appioppo un’etichetta e la comunicazione sarà sterile e dannosa.

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Matteo Marini