Vidovdan

“Sicché ci hanno ammazzato Ferdinando”, disse la fantesca al signor Ṧvejk, che avendo lasciato da qualche anno il servizio nell’esercito per essere stato dichiarato idiota dalla commissione medica militare, ora viveva vendendo degli orribili cani, ibridi mostri per i quali …Leggi tutto

“Sicché ci hanno ammazzato Ferdinando”, disse la fantesca al signor Ṧvejk, che avendo lasciato da qualche anno il servizio nell’esercito per essere stato dichiarato idiota dalla commissione medica militare, ora viveva vendendo degli orribili cani, ibridi mostri per i quali compilava delle fittizie genealogie.
Come se questa occupazione non bastasse, era affetto da reumatismi, e proprio in quel momento si stava frizionando i ginocchi con l’unguento di opodeldok.
“Quale Ferdinando, signora Müller?” domandò Ṧvejk senza cessare di massaggiarsi i ginocchi. “Io conosco due Ferdinandi: il primo è commesso dal droghiere Prušy, e una volta si bevve per sbaglio una bottiglia di lozione per capelli; e poi conosco anche Ferdinando Kokoška, che raccoglie lo sterco di cane. Per tutti e due non sarebbe un gran male”.

Jaroslav Hašek, “Il buon soldato Ṧvejk”

 

Si possono dire tante cose, molte anche vere e indiscutibili, sull’attentato di Sarajevo che il 28 giugno 1914 (giorno di San Vito – Vidovdan – secondo la chiesa ortodossa serba) costò la vita all’arciduca Francesco Ferdinando e a sua moglie Sofia Chotek.

Tutti sanno che quelle due morti portarono allo scoppio della prima guerra mondiale e a più di dieci milioni di altre morti; è altrettanto certo che con Sarajevo si avviò il suicidio dell’Europa, passata in pochi decenni – a partire appunto da quella data – da orgoglioso centro del mondo all’attuale accozzaglia di staterelli deboli e dipendenti.

Ma l’assassinio dell’erede al trono degli Asburgo illustra soprattutto la peculiare capacità, che i Balcani possiedono, di mischiare tragico e grottesco e di guardare con fatalismo ai risultati di quell’intreccio.

Il primo ingrediente è un assassino pasticcione: la Mano Nera, organizzazione terroristico-rivoluzionaria serba metà segreta e metà governativa, guidata da un tal Dimitrijević, già distintosi una decina di anni prima per aver guidato l’eccidio del re e della regina serbi, di vari ministri e dignitari, nonché – in una sorta di Hellzapoppin’ sanguinario – di una pletora di personaggi che avevano l’unico torto di trovarsi in quel momento nel Palazzo reale. In quell’occasione, fra l’altro, i congiurati assassinarono per errore anche il complice che doveva consegnare loro le chiavi interne del Palazzo; cosicché furono costretti a far saltare muri e stanze a forza di dinamite, cercando al buio il nascondiglio del re e della regina (i pochi servitori fedeli avevano interrotto l’elettricità). E anche nell’attentato di Sarajevo i terroristi, incapaci persino di suicidarsi perché le capsule di cianuro non funzionavano, non brillarono per capacità e organizzazione.

Il secondo ingrediente è un poliziotto incompetente: Oskar Potiorek, governatore imperial-regio della Bosnia, che disponeva in quei giorni di 70.000 soldati in esercitazione intorno a Sarajevo e utilizzò per l’ordine pubblico della città centoventi agenti di polizia. La polizia, d’altra parte, vigilò da par suo: tanto da non notare sul tracciato della visita la presenza di una decina di giovani armati con bombe e pistole, tutti bosniaci, quasi tutti conosciuti e schedati, alcuni di loro persino figli di poliziotti e agenti segreti.

Il terzo ingrediente è il destino, il fato particolare che regge i Balcani. Questo fece sì che i numerosi avvertimenti provenienti dalla Serbia (pare che alla fine lo stesso Dimitrijević, sospettando vagamente che l’attentato non avrebbe giovato agli interessi serbi, mise in guardia gli austriaci) trovassero ad ascoltarli in Austria solo perfetti incompetenti o brave persone che però, come il ministro Bilinski, detestavano Ferdinando e non si dispiacevano troppo al pensiero che gli potesse capitare qualcosa (ma chissà poi cosa!) in Bosnia. Va detto anche che i terroristi bosniaci, in generale, spiccavano per goffaggine e inefficienza: giusto quattro anni prima avevano sparato cinque volte al governatore, senza riuscire neanche a ferirlo – il predecessore di Potiorek, per festeggiare lo scampato pericolo, aveva preso a calci il cadavere dell’attentatore, suicidatosi dopo il fallimento.

La logica conseguenza di tutto questo fu che l’Arciduca Francesco Ferdinando, sulla sua macchina scoperta, passò a pochi metri da un giovane armato ed esaltato. Questi, di nome Nedeljko Čabrinović, lanciò la sua bomba contro la vettura ma non uccise nessuno: la duchessa Chotek fu solo scalfita, altri del seguito, su altre auto, vennero feriti. Čabrinović provò a suicidarsi col cianuro ma non vi riuscì; si gettò nella Miljacka ma il fiume era in secca. Lo ripescarono, lo pestarono e lo consegnarono alla polizia. Quando il tenente colonnello conte Franz von Harrach, al seguito dell’Arciduca, domandò a Potiorek se non fosse il caso di sospendere la visita, Potiorek rispose piccato: “Credete forse che Sarajevo sia piena di assassini?”. Sicché la giornata continuò normalmente.

Solo più tardi Francesco Ferdinando, uomo sensibile, ebbe l’idea di recarsi all’ospedale a visitare i feriti dell’attentato; siccome nessuno l’aveva comunicato all’autista della vettura imperiale, questi prese la strada prevista in precedenza, e poté far manovra solo dove lo slargo di un ponte glielo permetteva. Su quel ponte era in attesa Gavrilo Princip, che sparò due volte (era la prima volta che sparava a un uomo) e uccise due persone. Le ultime parole di Francesco Ferdinando, a Von Harrach che gli domandava delle sue condizioni, furono: “Non è niente”.

Se questo fosse un giallo, sarei forse obbligato a fornire dettagli sulla fine di qualche protagonista della vicenda. Diciamo solo che Oskar Potiorek entrò in guerra da generale dell’Armata imperial-regia: battuto tre volte con ignominia dal piccolo esercito serbo, che riuscì a rigettare l’invasione del potente nemico, si ritirò dal servizio nel 1915. Gavrilo Princip, minorenne all’epoca dei fatti, non poteva essere condannato a morte per la legge austro-ungarica: gettato in prigione, vi contrasse la tubercolosi e ne morì nel 1918, un braccio già amputato perché corroso dal bacillo di Koch. Qualche attentatore fece la stessa fine, in carcere o sul patibolo; altri si salvarono. Il capitano Dragutin Dimitrijević, divenuto un personaggio troppo scomodo, fu arrestato per ordine del governo serbo e in seguito fucilato per un delitto attribuitogli ingiustamente; ne aveva commessi a decine di verissimi.

L’Europa cominciò a morire quello stesso 28 giugno 1914; i Balcani, più o meno, stanno come allora.

 

“È una tremenda sciagura, signori. Però mangiare bisogna: andiamo a colazione” (Oskar Potiorek, governatore della Bosnia, dopo qualche minuto di rispettosa veglia delle salme nel Palazzo del governo di Sarajevo).

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