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Un intellettuale ucraino sulla guerra civile ucraina

- Ci siamo staccati dalla sanguinosa operetta moscovita, – diceva Tal’berg e splendeva nella strana uniforme dei seguaci dell’etmano, lì a casa, sullo sfondo delle vecchie care tappezzerie. L’orologio emetteva uno sprezzante e strozzato dong-dang, e l’acqua uscì fuori dal …Leggi tutto

- Ci siamo staccati dalla sanguinosa operetta moscovita, – diceva Tal’berg e splendeva nella strana uniforme dei seguaci dell’etmano, lì a casa, sullo sfondo delle vecchie care tappezzerie. L’orologio emetteva uno sprezzante e strozzato dong-dang, e l’acqua uscì fuori dal vaso. Nikolka e Aleksej non avevano nulla da dire con Tal’berg. Del resto sarebbe stato difficile dire qualcosa perché Tal’berg si irritava molto ogni volta che si parlava di politica, soprattutto quando Nikolka, con assoluta mancanza di tatto, diceva: “Ma come, Serëža, in marzo dicevi…” Tal’berg metteva subito in mostra la fila superiore dei suoi denti radi, ma grandi e bianchi, nei suoi occhi apparivano delle scintille gialle, ed egli cominciava ad agitarsi.

 

Tal’berg aveva dichiarato che essi non avevano radici e per due mesi non aveva prestato servizio. Nikolka Turbin aveva sorriso, entrando un giorno nella camera di Tal’berg. Questi stava scrivendo su di un grande foglio di carta degli esercizi di grammatica, e aveva davanti un libriccino sottile stampato su carta grigia.
“Ignatij Perpillo – Grammatica ucraina”.

 

E in queste stesse cittadine i maestri elementari, gli infermieri, i piccoli proprietari, i seminaristi ucraini, per volontà del destino diventati sottotenenti, gli erculei figli degli apicoltori, i capitani in seconda con i cognomi ucraini… tutti parlano l’ucraino, tutti amano un’Ucraina fatata, immaginaria, senza signori, senza ufficiali moscoviti, e le migliaia di ex prigionieri ucraini, ritornati dalla Galizia.

 

- È una carogna, – continuava con odio Turbin, – neppure lui parla questa lingua! Eh?
L’altro giorno domando a quella canaglia del dottore Kurič’kyj, – figuratevi che non sa più parlare russo dal novembre dell’anno scorso. Era Kuričkij, ora si è trasformato in Kurič’kyj… E così gli domando come si dice in ucraino “kot”. Lui risponde “kit”. Gli domando come si dice “kit”: lui sta zitto, spalanca gli occhi e non risponde. E ora non mi saluta più.

 

E ancora le voci sulla riforma agraria che l’etmano si accingeva ad effettuare.
- Ahimè, ahimè! Soltanto nel novembre del ’18, quando presso la Città cominciarono a rombare i cannoni, le persone intelligenti, e fra queste anche Vasilisa, intuirono che i contadini odiavano questo “pan hetman” come un cane idrofobo, e capirono quel che avevano in testa i contadini: non c’era alcun bisogno di quella porca riforma fatta dai signori, ma era invece necessaria l’eternamente desiderata riforma contadina:
- Tutta la terra ai contadini.
- Cento desjatine a testa.
- Non vogliamo più sentire neanche la puzza dei padroni.
- E che per queste cento desjatine ci diano una carta da bollo sicura, con un timbro, che la terra sia sempre nostra, ereditaria, dal nonno al padre, dal padre al figlio, dal figlio al nipote e via di questo passo.
- Che nessun pelandrone venga dalla Città a chiedere pane. Il pane è dei contadini, non lo daremo a nessuno, quel che non mangiamo, lo mettiamo sotto terra.
- Che dalla Città portino il petrolio.
- Una riforma del genere l’adorato etmano non l’ha potuta fare. E nessun diavolo la farà mai.
Correvano voci sconsolanti che liberare dalla sventura di avere l’etmano e i tedeschi avrebbero potuto soltanto i bolscevichi, ma anche i bolscevichi portavano le loro sventure:
- Gli ebrei e i commissari.
- Che disgraziati sono i contadini ucraini! Non c’è scampo!!

 

E quando arrivavano notizie vaghe da quelle regioni misteriose che si chiamano campagna, che cioè i tedeschi saccheggiavano i contadini e li punivano senza pietà, ammazzandoli con le mitragliatrici, neppure una voce di indignazione si levava a difesa dei contadini ucraini, ma più d’una volta, sotto i paralumi di seta nei salotti, digrignavano i denti come lupi e borbottavano:
- Ben gli sta! Ben gli sta! Anzi è troppo poco. Io li tratterei ancora peggio. Così si ricorderanno della rivoluzione.

 

Sì, la morte non indugiò a venire. Essa vagò per le vie autunnali e poi per quelle invernali dell’Ucraina, insieme alla secca neve turbinante. Cominciò a tambureggiare con le mitragliatrici nelle boscaglie. Non la si vedeva, ma la precedeva la ben visibile ira sgraziata del contadino. Questi correva nella tormenta e nel freddo, nei suoi “lapti” consunti, con la paglia nei capelli arruffati, e ululava. In mano aveva un grande bastone del quale nessuna iniziativa può fare a meno in Russia. Furono appiccati qua e là degli incendi. Poi nella scarlatta luce del tramonto apparve appeso per i genitali l’oste ebreo.

 

Dei logori nastri di San Giorgio pendevano dal bronzo opaco della tromba. Myslaevskij, piantato davanti al trombettiere con le gambe divaricate, gli insegnava e lo faceva provare.
- Non riesce a rendere la melodia… Adesso così, così. Soffi, soffi. E’ stata troppo tempo ferma, la nostra trombetta. E adesso l’allarme.
- Ta-ta-tam-ta-tam, – cantava il trombettiere, seminando il panico e lo sconforto tra i topi.

 

Per tutta la vita fino al 1914 Kozyr’ era stato maestro di villaggio. Nel ’14 era andato alla guerra in un reggimento di dragoni e verso il 1917 era stato fatto ufficiale. L’alba del 14 dicembre ’18 lo trovò colonnello dell’armata di Petljura, e nessuno al mondo (lui meno degli altri) avrebbe saputo dire come ciò fosse accaduto. Era accaduto perché la guerra per lui era una vocazione, mentre la professione di maestro era stata soltanto un lungo e grosso errore.
Fumigavano le bianche case del villaggio di Popeljucha, e le quattrocento sciabole di Kozyr’ uscirono in ordine di battaglia. Nelle file della colonna ondeggiava il fumo delle “machorka” e il massiccio stallone baio di Kozyr’ si moveva nervosamente sotto il suo cavaliere. Le slitte della salmeria cigolavano e si snodavano per mezzo chilometro dietro il reggimento. Il reggimento dondolava sulle selle, e subito dopo Popeljucha alla testa della colonna sventolò sull’asta la bandiera a due colori: una striscia azzurra e una striscia gialla.

 

- Sì, a lui… era stato lui a condurre il treno da noi, a Žitomir… Dio mio! Io, allora, incomincio a pregare il Signore. “È finita”, penso! E volete saperne una? Mi ha salvato il canarino. “Non sono un ufficiale”, dico. “Sono uno scienziato, allevatore d’uccelli”, e mostro il canarino… Allora, sapete, uno di essi, mi da una botta sulla nuca e dice insolentemente: “Va’ pure, diavolo d’un allevatore”. Che impudente! Io, da gentiluomo, l’avrei ammazzato, ma capirete anche voi…

 

Basta dare la caccia ad un uomo sparandogli addosso perché egli si trasformi in un accorto lupo; al posto di un’intelligenza debole ed inutile nei casi realmente difficili, nasce un accorto istinto ferino.

 

Nulla di tutto questo sapevano gli allievi della prima legione. Peccato! Se l’avessero saputo, forse, sarebbe scesa su di loro l’ispirazione e invece di affannarsi sotto un cielo di shrapnel presso Post-Volynskij, sarebbero andati nel confortevole appartamento di Lipki, ne avrebbero trascinato fuori l’assonnato colonnello Ščëtkin e l’avrebbero impiccato al lampione, proprio dirimpetto all’appartamento della bionda dai riflessi dorati.
Sarebbe stato bello farlo, ma non lo fecero, perché non sapevano e non capivano nulla.

 

- La funzione propiziatoria per la vittoria e per il sopravvento dell’esercito popolare ucraino sull’esercito rivoluzionario.
- Scusi, che vittoria e che sopravvento? Hanno già vinto.
- Vinceranno ancora!
- Faranno una campagna.
- Contro che cosa?
- Contro Mosca.
- Quale Mosca?
- Quella di sempre.

 

Sia la colt di Naj-Turs che la browning di Alësa furono lubrificate nel migliore dei modi con olio minerale e petrolio. Lariosik, al pari di Nikolka, si rimboccò le maniche e aiutò a oliare e a riporre ogni cosa in una lunga e profonda scatola di latta da caramelle. Era un lavoro da sbrigare in fretta, poiché ogni persona ammodo che abbia partecipato a una rivoluzione sa benissimo che sotto qualsiasi regime le perquisizioni si fanno dalle due e trenta di notte alle sei e quindici di mattina nell’inverno, e da mezzanotte alle quattro nell’estate.

 

L’uomo dalla barba rossiccia non aveva nessuna arma, non era neppure un militare: era un portinaio. Il furore passò davanti agli occhi di Nikolka come una coperta rossa e un’assoluta sicurezza ne prese il posto. Il vento e il gelo entrarono nella sua bocca ardente perché digrignava i denti come un lupetto. Cavò fuori dalla tasca la mano con la rivoltella e pensò: “Lo ammazzo come un cane, purché sia carica”. Egli non riconobbe la propria voce tanto s’era fatta terribile ed estranea.
- Ti ammazzo, cane! – disse egli rauco, tastando con le dita il complicato meccanismo della colt e sull’istante si accorse di aver dimenticato come la si usava. Il portiere, rosso e giallo, vedendo che Nikolka era armato, pieno di disperazione e di terrore, cadde in ginocchio e strillò, trasformandosi miracolosamente da Nerone in serpente.

 

Entrarono in un grande deposito. E Nikolka vide confusamente quel che non aveva visto mai. Come legna accatastata, uno sull’altro giacevano corpi umani nudi, che esalavano un fetore insopportabile, tale da soffocare un uomo nonostante l’ammoniaca. Gambe, irrigidite e flosce, tendevano in fuori i piedi. Teste di donna giacevano con i capelli sciolti e sparsi, e le loro mammelle erano peste, gualcite, coperte di lividi.

 

Naj, lavato dai custodi soddisfatti e loquaci, Naj pulito, in giubba senza spalline, Naj con la coroncina sulla fronte, sotto i tre ceri accesi e, soprattutto, Naj col metro di nastro variopinto di San Giorgio, che Nikolka gli aveva messo con le sue stesse mani sotto la camicia sul freddo, viscido petto. La vecchia madre distolse gli occhi dalle tre fiammelle, voltò verso Nikolka la sua testa tremula e gli disse:
- Mio figlio. Be’, ti ringrazio.
E per questo Nikolka ricominciò a piangere e uscì dalla cappella nella neve. Intorno, sopra il cortile del teatro anatomico c’era la notte, la neve e le stelle simili ai fiori delle carte da gioco e la bianca Via Lattea.

 

All’alba essa si spense. E si spensero le luci sopra la terra. Il giorno tuttavia non divenne chiaro e prometteva di essere grigio, con un velo basso sull’Ucraina.

Michail Afanas’evič Bulgakov (Kiev, 1891-Mosca, 1940), “La guardia bianca” (1924).

***

Nota: avevo pensato, sulle prime, di accompagnare a ogni citazione dal libro foto e video attuali. Ma le immagini hanno questo difetto: che, come tutte le cose troppo evidenti, sono intrinsecamente tendenziose e non di rado false. Inoltre ho troppo rispetto per l’intelligenza dei lettori per obbligarli a una interpretazione, quando possono cercarne da sé.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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