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Venerdì scorso, mettendo fine a una lunga tornata di negoziati che sembravano destinati a non approdare a nulla (se ne era già parlato su queste pagine), Serbia e Kosovo sono infine giunti alla firma di un accordo sullo …Leggi tutto

Venerdì scorso, mettendo fine a una lunga tornata di negoziati che sembravano destinati a non approdare a nulla (se ne era già parlato su queste pagine), Serbia e Kosovo sono infine giunti alla firma di un accordo sullo status e sulla tutela della minoranza serba nel nord del paese, nato a sua volta dalla frammentazione della vecchia repubblica jugoslava serba.

L’accordo in sé non dice nulla di rivoluzionario: si tratta di un’autonomia non troppo accentuata e senza particolari acrobazie istituzionali, stilata senza neanche consultare i serbi del Kosovo che dovranno sperimentarlo; un accordo di basso profilo e giunto esclusivamente per disperazione delle due parti di riuscire a strappare condizioni migliori (qui una bella analisi della situazione). Il che, personalmente, mi porta a credere che le conseguenze di questo atto notarile avranno enorme importanza futura, dato che i grandi eventi storici generalmente si fanno riconoscere solo a distanza di molto tempo.

All’atto pratico, il compromesso di venerdì cancella due alibi – quello serbo dell’inimicizia della Nato e dell’Europa che bloccava il paese; quello kosovaro della quinta colonna belgradese dentro i propri confini, sempre pronta a destablizzare – e mette due classi politiche di fronte alle proprie responsabilità, aprendo alla Serbia le porte dell’Europa e al Kosovo quelle di una convivenza di fatto con il proprio imprescindibile vicino. Questa è senz’altro una bella notizia per tutti.

Ciò che preoccupa un po’, vivendo in Italia, è dover constatare che la parte apparentemente più immobile e arretrata d’Europa ci mette – per cominciare a rimuovere le scorie di una guerra spietata e di odi secolari – due settennati di un nostro presidente della Repubblica; il tempo che a noi non basta per quelle riforme e quelle svolte che tutti dicono urgenti da vent’anni. Per fortuna la locuzione “malato d’Europa” è un po’ passata di moda, e possiamo far finta di niente.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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