Quel che resta di un mondo

Qualche giorno fa ho incontrato per puro caso un amico con cui ho condiviso una parte degli studi universitari. Com’è forse inevitabile in tali circostanze, e nonostante una conversazione anche ricca e interessante, siamo finiti a parlare di scienze politiche; …Leggi tutto

Qualche giorno fa ho incontrato per puro caso un amico con cui ho condiviso una parte degli studi universitari. Com’è forse inevitabile in tali circostanze, e nonostante una conversazione anche ricca e interessante, siamo finiti a parlare di scienze politiche; in qualche modo, non ricordo come, il discorso è scivolato sulla vecchia e anacronistica suddivisione fra Primo, Secondo e Terzo Mondo.

Ma ci siamo resi conto che, per quanto anacronistica, tale suddivisione è ancora ampiamente usata, più di due decenni dopo la scomparsa sostanziale del secondo mondo; certo nessuno parla più di primo mondo (magari per una giusta e comprensibile ritrosia ad autodefinirsi), però il Terzo Mondo sembra essere sopravvissuto a qualsiasi cambiamento geopolitico. E non si tratta di un provincialismo italiano: no, “Third world” è un’espressione viva e usata anche dai media anglofoni, tanto da essere finita persino dentro un paio di meme di successo.

Ma se il secondo mondo non esiste più, perché dovrebbe esserci ancora il terzo? Eppure la storia recente non ha esitato nel rimuovere quasi tutti i ricordi e i lasciti del socialismo reale e dell’utopia comunista, anche in ambiti in cui il fallimento era stato assai meno fragoroso che in campo economico. D’altra parte certo nessuno si sogna di andare a Praga o a Budapest a chiedere ai locali come si stia sul gradino inferiore rispetto al nostro; il secondo mondo non regge neanche come fattore di analisi di una transizione al mercato.

Allora a che serve la sua assenza che non ci decidiamo a cancellare? Credo che la risposta sia abbastanza semplice, e un po’ inquietante: ci fa comodo, tutto sommato, che rimanga qualcosa – benché falso, indicibile e tutto sommato inesistente – fra noi del Primo, che oltretutto andiamo perdendo tanto della nostra superiorità e del nostro distacco, e il Terzo Mondo. Perché ci sono contiguità che danno più fastidio e fanno più paura di qualsiasi imprecisione nel vocabolario, d’altronde non così diffuso, degli economisti e degli scienziati politici.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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