La resistenza delle montagne
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La resistenza delle montagne

La guerra partigiana in Italia, la guerra di Liberazione, è stata definita come, tra le altre cose, una guerra civile. E lo è stata, indubbiamente; ma all’espressione guerra civile dobbiamo dare non soltanto il significato novecentesco, politico, ideologico, che pure senza dubbio ci fu e fu importante, bensì uno più ampio. La Resistenza italiana è stata anche un conflitto sociale, economico, persino geografico; è stata l’ultima guerra e l’ultima gloria della montagna italiana.
Le montagne, in Italia, sono sempre state in guerra; d’altronde senza la guerra (la sua realtà o la sua minaccia) non è neanche facile capire perché tanta gente si sia andata a ficcare in posti tanto inospitali, e ci sia rimasta per millenni. Ma contro chi hanno combattuto? Di solito contro chi controllava le città, le pianure, il mare, contro chi, dunque, era davvero potente; si è trattato quindi sempre di resistenze tenaci e destinate alla sconfitta, o di ribellioni coraggiose e ugualmente difficili da sostenere. Questo discorso vale già per le guerre sannitiche, che - con la crescente potenza di Roma - finirono per somigliare sempre più a spedizioni punitive; ed è perfettamente valido per un’altra guerra civile, quella del 90-88 a.C., in cui non a caso i socii ribelli scelsero a prima capitale d’Italia Corfinium, sulle montagne abruzzesi, a segnalare che la questione - politica, etnica, economica - era prima di tutto la lotta tra due mondi.
Anche l’apparente vittoria della montagna, il lungo medioevo in cui le città scompaiono, le pianure si spopolano, e i colli si coprono di castelli, è in realtà il frutto della guerra: ossia di quella terribile insicurezza che dura secoli e che spinge buona parte dell’Europa a vivere nascosta e pronta alla fuga, sapendo che i monti sono l’unica salvezza.
La paura, o per meglio dire quella specifica insicurezza (perché restano molti altri terrori), ha termine. Pian piano cambiano anche i meccanismi sociali ed economici, le città si riempiono, le pianure riguadagnano il proprio posto; è un processo che dura a lungo e che, complice anche l’arretratezza peculiare del nostro paese, in Italia non è ancora concluso neanche a metà del Novecento. Già la prima guerra mondiale ha tolto ai monti più figli che altrove, un po’ perché è lassù che si è tanto combattuto, un po’ perché serviva gente dura e troppo povera di rimpianti per aver paura; ma la seconda fa ancora peggio, la seconda, che sembrava avercela solo con le città incenerite dai bombardamenti, invece viene a cercare la gente delle montagne (che pure ha già sofferto molto; la Julia è finita sottoterra in Albania, e migliaia di altri alpini non torneranno dalla Russia). I monti dal ’43 in poi diventano le chiavi di volta di quella guerra lenta e terribile che è la Campagna d’Italia, in cui gli Alleati risalgono la penisola senza fretta e la popolazione civile è lasciata sola da un governo in fuga, quasi che si fosse tornati al primo Medioevo e all’assenza di leggi e di sicurezze.
Può sembrare naturale, allora, che la Resistenza sorga sulle montagne, quasi che nasca da esse (certo c’è anche una Resistenza cittadina; ma ha numeri diversi, lutti ben minori, e segue dinamiche squisitamente politiche): in fondo ogni colle è un caposaldo, e le possibilità militari e strategiche sono, come si dice in questi casi, interessanti ed evidenti. Ma il fatto che sia militarmente facile fare la guerra in montagna non deve far dimenticare cosa significa e comporta la guerriglia: che è quel tipo particolare di guerra in cui gli insorti contano 19 perdite su 20, grossomodo, e quei 19 sono quasi sempre donne, bambini, ignari; senza contare che si combatte nei poveri villaggi degli insorti, sulla pelle delle loro poche bestie e sui loro campi improduttivi. Quando si sceglie la guerriglia, dunque, è perché ogni alternativa è molto peggiore; oppure, semplicemente, perché non ci sono alternative. Che è in fondo il motivo per cui tanta gente è salita a suo tempo sulle montagne e perché ci è rimasta.
In questo senso la Resistenza italiana è largamente prepolitica (non apolitica): certo, è la guerra degli antifascisti contro i nazifascisti, è l’eterna guerra dei poveracci che sperano che qualcosa cambi (e tutto sommato andò meno peggio del solito), ma è anche la guerra delle montagne contro la violenza degli intrusi. Non è un caso che una delle pagine più appassionate, commoventi e anche feroci della guerra partigiana l’abbiano scritta dei partigiani anomali, gli abruzzesi della Brigata Maiella che non potevano avere educazione politica - e infatti non l’avevano e non si schierarono - ma che erano repubblicani istintivi, non solo perché quel particolare re era un vile e un fellone, bensì perché figli neanche troppo metaforici dei ribelli di Corfinium. I villani della Maiella, simili a quelli della Marsica descritti da Silone, troppo abbruttiti anche per ribellarsi, si scoprono partigiani e soldati quando la guerra irrompe nei loro paesi, che già stavano morendo sotto i colpi dell’emigrazione e della modernità; le bestie uccise, le catapecchie bruciate, le mogli violentate, fanno di quei contadini un esercito senza scarpe e spietato, che assalta i tedeschi e i fascisti sulla Majella madre, li rincorre su su per le Marche e la Romagna, procedendo a braccetto con un altro esercito anomalo, i polacchi di Anders che combattono per un paese in cui non vorranno e non potranno tornare. Quella brigata di montanari, che intanto ha raccolto per strada altri villani di altre estrazioni (anche i monti marchigiani hanno conosciuto la violenza degli occupanti; e ora chiamano la vendetta) entra a Bologna, in mezzo alle armate ben pasciute ed equipaggiate degli alleati, e ci sta a buon diritto. Un manipolo di audaci o di pazzi continua addirittura la guerra fino in Veneto: i montanari abruzzesi sono i primi ad entrare ad Asiago, ed è un fatto incredibile e naturale che siano le montagne a liberare le montagne.
Non c’è bisogno di aver studiato a fondo la demografia e la storia recente del nostro paese per sapere che i paesi della Maiella con i loro nomi meravigliosi - Taranta Peligna, Gessopalena, Civitella Messer Raimondo - sono paesi morti, già nel momento in cui vi tornano i patrioti della Brigata. Sono morti perché non c’è futuro sulle montagne, perché i ragazzi e le ragazze scenderanno da subito a valle, perché nel giro di pochi decenni lassù non nascerà più nessuno. E lo stesso vale per i paesi marchigiani e romagnoli liberati dalla Maiella, ma anche per i borghi piemontesi e liguri che sono stati il cuore e l’anima della Resistenza italiana, o per i villaggi apuani ed emiliani che si sono trovati sulla Linea Gotica. L’Italia liberata è un paese diverso, cambiato (dov’erano i castagneti ci sono boschi disordinati; dove i fossi, adesso ci sono le frane), che continuerà a cambiare; e i paesi sulle montagne sono il passato, e hanno senso solo in un’immobilità millenaria che non esiste più.
Eppure quei paesi morti e silenziosi, tutti diversi e tutti simili con le loro targhe in piazzetta a ricordo di caduti tanto numerosi che uno pensa quasi non abbiano potuto vivere lassù, hanno dato un contributo fondamentale alla guerra partigiana e alla libertà d’Italia: e non c’era forse modo più sublime per congedarsi dalla Storia, che se ne è andata per sempre da quelle pietre e da quei villani.

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Tommaso Giancarli

Nato nel 1980, originario di Arcevia, nelle Marche, ho studiato Scienze  Politiche e Storia dell'Europa a Roma. Mi sono occupato di Adriatico e  Balcani nell'età moderna. Storia e scrittura costituiscono le mie  passioni e le mie costanti: sono autore di "Storie al margine. Il XVII  secolo tra l'Adriatico e i Balcani" (Roma, 2009). Attualmente sono di  passaggio in Romagna.

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