La cucina è vicina

Le questioni etiche e antropologiche, talvolta, compaiono dove e quando meno te le aspetti. L’altra sera, per dire, stavo saltando oziosamente da un canale all’altro e mi sono imbattuto in una puntata della versione italiana di Cucine da incubo. …Leggi tutto

Le questioni etiche e antropologiche, talvolta, compaiono dove e quando meno te le aspetti. L’altra sera, per dire, stavo saltando oziosamente da un canale all’altro e mi sono imbattuto in una puntata della versione italiana di Cucine da incubo. Per chi non lo sapesse, trattasi di un format televisivo creato da Gordon Ramsay, pluripremiato chef di origini scozzesi, irascibile e sboccato quanto talentuoso.

La struttura del format è presto detta: Ramsay va a visionare un ristorante in crisi, parla con i proprietari, osserva un “servizio” durante il quale, immancabilmente, emergono in maniera lampante i problemi che hanno portato il locale sull’orlo del fallimento, che possono essere i più vari: menu o prezzi sbagliati per la collocazione del locale, incapacità gestionali, attriti caratteriali tra soci o tra proprietari e personale, scarsa cura dell’igiene in cucina, arredi vetusti e inadeguati, incuria o lungaggini nel cucinare, uso di materie prime di scarsa qualità, mancanza di innovazione e incapacità di comprendere i gusti dei clienti, eccetera. Poi comincia la pars construens: Ramsay raduna gestori e personale, li convince degli errori commessi, ristruttura il locale in una notte grazie a un team di iperefficienti carpentieri, ridefinisce il menu e sottopone il ristorante rinnovato nel corpo e nello spirito all’experimentum crucis: una serata in cui vengono invitati al ristorante clienti vip (il critico gastronomico, il sindaco della città, i membri del’influentissimo club del libro locale, un enfant du pays più o meno celebre in qualche campo, cose così) e in cui, immancabilmente, succede quanto segue: lo staff parte bene, avendo fatto tesoro dei consigli di Ramsay; poi però un evento imprevisto o il riemergere di antiche ruggini provoca una crisi che pare mettere a repentaglio tutti gli sforzi fatti; infine lo scioglimento catartico: lo staff riesce, in un guizzo di buona volontà, a raddrizzare la serata.

In diciannove casi su venti tutto finisce a tarallucci e vino, con l’appendice narrativa di Ramsay che torna al ristorante dopo un mese o due e ritrova una macchina perfettamente oliata che macina fatturato, con le antiche farraginosità ormai confinate nel ricordo. Solo rarissimamente, forse all’unico scopo di metter le mani avanti e premunirsi dalle accuse di essere nient’altro che una colossale messa in scena, la trasmissione mostra un fallimento: i gestori rifiutano di riconoscere i propri errori, non ascoltano i consigli di Ramsay, non sanno superare i loro problemi, restano cocciutamente ancorati alle loro idee perdenti. Al suo ritorno Ramsay trova il locale vuoto, fallito, venduto. Ma, ribadisco, si tratta di casi rarissimi. Perlopiù quel che viene mostrato è un percorso di caduta, accettazione, riconoscimento, volontà di cambiamento, redenzione.

Di Cucine da incubo io e mia moglie siamo fan da anni. Tuttavia, è stato solo con la visione di una puntata della versione italiana che la questione etica m’è balzata in mente con tutta la sua drammatica evidenza. Le prime puntate (finora ne sono andate in onda tre, recensite oggi sul “Corriere della Sera” da Aldo Grasso) hanno ricalcato in tutto e per tutto le versioni americana e inglese interpretate da Ramsay, con due eccezioni: il protagonista della serie italiana non è lo chef scozzese, ma l’italianissimo Antonino Cannavacciuolo, chef del Villa Crespi di Orta San Giulio (NO), 2 stelle Michelin; i ristoranti da salvare sono, ovviamente, italiani. Ed è stata proprio quest’ultima banale evenienza che m’ha indotto a pensare.

Mi spiego: i ristoranti visitati da Ramsay si trovano, come detto, in Gran Bretagna e negli USA, quindi abbastanza lontani da risultare, per lo spettatore sedentario che sono, puri luoghi dello spirito, fantasie generate dalla narrazione di un divertente spettacolo. I ristoranti visitati da Cannavacciuolo, al contrario, sono posti dove, in teoria, potrei finire a mangiare senza troppe carambole del destino. La seconda puntata, per dirne una, riguardava una trattoria sui Navigli a Milano, zona dove mi capita di trascorrere ogni tanto, ma non troppo infrequentemente, una serata con gli amici.

Ed ecco allora la pregnante questione etica: io mi fiderei di andare a mangiare in un ristorante che abbia ricevuto la visita purificatrice e palingenetica di Cannavacciuolo? Riuscirei serenamente a prenotare un tavolo in quella trattoria dove fino all’arrivo del prestigioso chef gli scarafaggi correvano indisturbati sulle tovaglie, ai clienti venivano spacciati per freschi ingredienti scongelati, mestoli e stoviglie erano incrostati di croppa unta, la cucina era approssimativa e sciatta, il servizio sgarbato ed esasperantemente lento, eccetera? Mi basterebbe avere la garanzia che i fallimentari gestori di prima hanno ora visto la luce cannavacciuola? Hanno capito e si sono emendati? Cioè, siamo sicuri che funzioni così? Che possa funzionare così? Che basti che arrivi uno (bravo bravissimo, per carità) che ci spiega come si dovrebbe fare per diventare effettivamente capaci di farlo? Non viene anche a voi il sospetto che se i gestori e Cannavacciuolo interpretano, in quella trasmissione, quei due differenti ruoli, sia perché in effetti l’uno sia Cannavacciuolo e gli altri degli inguaribili cialtroni? E che ci mancherebbe solo che lo chef stellato non sapesse spiegare il suo metodo di lavoro, ma che poi per applicarlo servirebbe – come dire? – essere lui, avere le sue capacità, la sua tigna, il suo talento, la sua storia? Che non basti, umanamente ed eticamente, convincere del peccato per ottenere la santità? Che non sia sufficiente spiegare com’è fatto il bene per renderci capaci di farlo? Per preservarci dal ricadere nel male? E che nessuno ci garantisce che gli errori di prima non tornino, e con loro gli scarafaggi e la croppa?

Ma se volete seguire fino in fondo il filo dei miei pensieri, ditemi: voi, voi andreste a mangiare in uno di quei ristoranti?

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Marco Beccaria

Marco Beccaria è nato a Milano nel 1967. Sa fare passabilmente tre cose:  insegnare filosofia e storia al liceo, discutere oziosamente di massimi  sistemi e il master di Dungeons & Dragons. Meno bene riesce a  giocare a pallacanestro e ad andare in bicicletta, il che non gli  impedisce di trarre godimento da entrambe le attività. È sposato con  Raffaella e vive tra i colli piacentini e Milano.

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