Amarcord, Lindsay Lohan

Amarcord, Lindsay Lohan

Siamo ormai oltre la metà di una Mostra che lascia tutti, ogni giorno, a guardarsi nelle palle degli occhi, «Saran mica film da festival, questi» è la frase socialmente più gettonata nella pausa-spritz, i titoli son mediamente brutti, stanchi, dimenticabili.…Leggi tutto

Siamo ormai oltre la metà di una Mostra che lascia tutti, ogni giorno, a guardarsi nelle palle degli occhi, «Saran mica film da festival, questi» è la frase socialmente più gettonata nella pausa-spritz, i titoli son mediamente brutti, stanchi, dimenticabili.

Non sto qui a fare bilanci sul concorso (mi permetto una parentesi solo per l’unico titolo davvero buono, finora: l’estenuante inferno domestico della Moglie del poliziotto di Philip Gröning), lo stato del cinema italiano e non, il senso di manifestazioni come questa, il redde rationem che dovrà esserci – secondo molti – a sipario appena calato.

Solo due cose.

Il film più bello di tutti sarebbe il montaggio degli amarcord dell’Archivio Luce dalle Mostre passate che mandano prima di ogni proiezione dei film in gara. E non per il solito «Ah, una volta era tutto più bello», che sì, va bene, ma anche no. Ma perché Monicelli che ringrazia intimidito per il Leone alla Grande guerra, David Lean che riceve la Coppa Volpi assegnata all’assente Alec Guinness, persino Sylva Koscina, «la biondina», sorridente sulla ruota panoramica che guardava il Palazzo del Cinema, ecco, tutto quello aveva un senso, era fatto per lasciare dei segni precisissimi, che precisi, difatti, lo sono ancora oggi.

L’altra. L’unico film che, a conti fatti, dà il segno preciso del cinema di oggi, del suo senso, del vuoto che rischia di lasciare un concorso come questo, l’unico è lo sbertucciato The Canyons di Paul Schrader, scritto (con pur dubbi sviluppi narrativi) da Bret Easton Ellis, interpretato dalla celebrità svuotata di Lindsay Lohan, mai più brava come a undici anni, e da quella dopata di James Deen, laddove il nome basta a significare ogni cosa. C’è il vuoto delle sale dismesse, della Los Angeles delle cene in cui i produttori si passano i soldi, dei provini falsati, del noir ripensato in chiave troppo contemporanea, uno scambio di foto su Facebook e un po’ di sangue finale, finto anche quello. È il vero celebrity obituary, a pensarci, e insieme l’unica possibilità rimasta, forse, per raccontare qualcosa del cinema di oggi. Che, diremo davanti allo spritz di stasera, «sarà mica un cinema da festival».

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Mattia Carzaniga

Nato nel 1983, giornalista, scrive per varie testate. Ha pubblicato i  libri «L'amore ai tempi di Facebook» (Baldini Castoldi Dalai, 2009) e  «Facce da schiaffi» (Add Editore, 2011). Guarda molti film, passa troppo  tempo on line, ruba pezzi di storie alle persone che incontra.

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