Sesta sfumatura. Anche mia nonna era stagista (ovvero: il precariato non ha età)

Oggi è il compleanno di mia nonna. Intanto 86 bellissimi anni, auguri. Mi sono fermata a pensare. Al fatto che mia nonna mi ha cresciuta: mi dava la pastasciutta a merenda, mi ha insegnato l’alfabeto farfallino (con cui per anni …Leggi tutto

Nonna

La foto di mia nonna

Oggi è il compleanno di mia nonna. Intanto 86 bellissimi anni, auguri.

Mi sono fermata a pensare.

Al fatto che mia nonna mi ha cresciuta: mi dava la pastasciutta a merenda, mi ha insegnato l’alfabeto farfallino (con cui per anni ho sopperito alle mie carenze in inglese e francese), mi ha dato i rudimenti di gioco d’azzardo facendomi giocare alla roulette con i gusci delle nocciole.

Mi ha raccontato di quando aveva una bambola soltanto, c’era la guerra che si era portata via tutto, forse anche un po’ di fantasia, e la bambola s’era finito per chiamarla soltanto Lufantonia. Mi ha insegnato che la panna sale sopra il burro e che le suore ti guardano male in bicicletta perché ti si alza la gonna sulle cosce.

Poi ho pensato alla sua vita e al suo lavoro, a tutto quello che ha fatto, la mia nonna.  Ai mille mestieri  perchè uno fisso, ben pagato non c’era. E ho capito che lei è stata stagista in tempi non sospetti. Contratto a progetto antelitteram e anteguerra (‘39-’45, s’intende).

Il pascolo d’estate, il latte e le mucche, poi le castagne e le foglie in autunno. I materassi da disfare l’inverno. Con la fame e la guerra o ti davi una mossa o ti davi al multitasking – come si direbbe oggi.

S’imparava sul campo (e frai campi): spiavi tuo fratello più grande e poi provavi, rubavi il mestiere un po’ all’uno e un po’ all’altro. Lavoravi, un mese, due al massimo, senza sicurezze, senza ferie, mutua e permessi pagati. Non c’era il contratto a tempo indeterminato. Di indeterminato, invece, c’era spesso il pranzo.

Un po’ più cresciuta imparavi a fare le punture e andavi a servizio dalle signore grasse e ricche, a fargli il ricostituente che quando erano in vacanza, l’aria di montagna le stancava.

E poi si ricominciava. Ogni giorno qualcosa da inventarsi, ogni giorno sapendo che quello seguente quel lavoro potresti non averlo più, ogni giorno sapendo che stai imparando e che qualcosa in più da fare arriverà.

Secondo me tutti quei lavori alla fine le piacevano. Amava e rispettava la fatica e l’impegno, l’etica del lavoro, anche quando il lavoro non aveva certezze né tutele. Il lavoro era precario, già prima. Gli stagisti e i co.co.pro. c’erano, già prima.

Mia nonna era un po’ precaria, un po’ freelance, come me.

Poi aveva le guance rosse, si faceva una treccia intorno alla testa e se ne andava a ballare fino a Roccaforte. A piedi.

 


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Ilaria Liprandi

Manovale del web e digital something in Mondadori, ha scritto per Altreconomia e SocialNews e - malgrado l'accento piemontese - per un po' ha parlato a Radio Bocconi.

Nonostante una laurea in economia e una in politiche internazionali, i social network, lei, li prova tutti. Senza vergogna, neppure di un hashtag.

Cintura nera di raccolta differenziata, se volete farla felice, chiedetele dove si butta il Tetra pak.

E' nata fra gli orti, ma ha dovuto aspettare di trasferirsi in città per apprezzarli davvero.

Graphic-bio e altre vanità digitali qui  

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