Cronaca di un fallimento annunciato
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Cronaca di un fallimento annunciato

Dicono che la gente di successo - termine stuprato ormai, immagina che ne so, Magellano per esempio, che attraversò il mondo navigando senza gps su delle carrette marce, che si ammazzarono tra di loro esasperati dall’incertezza, che si mangiarono pure i pali delle vele tanta era la fame, pero poi scoprire, per caso, lo stretto di Magellano, appunto, ma non è che lui lo seppe subito e tornò a casa in aereo facendosi un selfie con una donzella sulle ginocchia. No. Morì pochi giorni dopo in una battaglia, a mano degli uomini di Lapu Lapu, nelle Filipine - mentre sogna la sua impresa, abbia un pensiero ricorrente che li porta ad anticipare, nella loro immaginazione, i momenti che vivranno una volta arrivati alla realizzazione del proprio sogno.

Poi c’è il resto della gente. Quella che davanti alla vertigine che il proprio sogno provoca, non fa che pensare al peggio. Non perché lo voglia come destinazione, no. E’ un trucco per impressionare la paura. Qual è la cosa peggiore che potrebbe succedere? La si pensa, la si anticipa e per tanto la si scongiura, le si toglie la sorpresa che è la cosa che terrorizza più di ogni altra, allora si ha un volatile momento di calma, una credulona sensazione di controllo. 

Diciamo per esempio che io sogno di scrivere un libro. Forse lo sto già facendo. Dubitando, tutto il tempo. Per ogni parola, un dubbio; le scrivo e le devasto. E’ mia la critica più implacabile, perentoria. 

Allora immagino che finisco questo libro, se lui non finisce con me prima, e arrivo presto in libreria per la presentazione. Le sedie sono vuote, la pila di libri, o meglio, la pila del libro, sul tavolo, un paio di penne, due bottiglie d’acqua. Vorrei bere, non acqua, ma cosa? Una birra: operaia, dissetante, poco alcolica, gelida e con molta schiuma (e qui si fanno sotto i bravi bevitori di birra che mi spiegano che quella vera è temperatura ambiente e senza schiuma e gne gne gne). No, meglio un bicchiere di vino rosso, o uno spritz o un negroni. Oppure un martini vodka e che vada come vada. O facciamo due e che esca la diva che ingrassa dentro di me con i suoi pensieri pieni di paillettes e battute argute, esilaranti. Terzo martini! e che le battute diventino sarcastiche scomode sessuali insopportabili aggressive politicamente scorrette e che perda tutti i lettori rispettabili e restino quei pochi amici con i quali strisciare i gomiti contro i muri fino al portone di casa. 

Bevo un sorso d’acqua. Mi suda la fronte. Meglio non bere niente. Anche se bere mi aiuterebbe a parlare. Come succede con le lingue straniere, non è che le parli meglio, ma ne sei divinamente convinto. E questo basta. Parlare mi riesce sempre male. E non è perché l'italiano non sia la mia lingua madre. In qualsiasi lingua, parlare non va bene per me in situazioni importanti. In situazioni dove si aspetta che dica qualcosa io dò il peggio, ripeto cose che ho sentito e non penso neanche, rido a contro tempo, come una idiota. 

Non so come sono finita qui. Perché dovrei parlare del libro? Perché dovrei parlare di me? Io non sono un’attrice, gli attori parlano, hanno una bella voce, sanno gestire il respiro che a me in questo momento manca molto. Non respiro da ieri, ho dormito male, e ora sono qui e sarà meglio non bere. Affrontare la delusione di tutta quella gente con tutta la lucidità che la mancanza di ossigeno mi lasci. Che spero sia molto poca. 

Perchè la gente viene qua, a quest’ora? Invece di andare al cinema, a bere qualcosa con gli amici se proprio vogliono uscire, cosa vogliono da me? Il libro si presenta da solo, sono gli amici che ti presentano i libri, sono le vetrine delle librerie coloro che presentano un libro ai passanti, ai curiosi, ai viaggiatori in stazione. E’ quel vetro trasparente costellato da copertine chi presenta i libri, li offre, li fa desiderare, li promette. Basta entrare, prenderlo, pagare e bom, sei fuori con il libro, con l’autore e tutto ciò che aveva da dire per questa volta. Tutto ciò che aveva da dire, è li dentro. Non vuole parlare. Altrimenti sarebbe un manager, un professore di storia, un animatore di feste infantili, una mia zia. 

Mi chiedo quando hanno iniziato con questa pratica, e mi chiedo perché. L’unica volta che sono andata alla presentazione di un libro è stato per sbaglio. Non voglio conoscere gli autori, vedere come si vestono, che occhiali usano, come pronunciano la esse, come ridono e sorridono, come stanno scomodi dentro il loro corpo davanti a tutti quelli che hanno un loro pezzo d’anima in mano. Non voglio sapere quali sono i loro scrittori preferiti, né quale partito votano (Se mi chiedono se sono di destra o di sinistra dirò la verità, che sono dislessica, che ho visto sempre male da lontano e ora vedo male anche da vicino, e che faccio molta fatica a capire una e l'altra). Invece quelli che stanno troppo comodi dentro il loro corpi davanti a quelli col loro pezzo di anima in mano mi creano diffidenza, mi viene da pensare che forse non c’è niente lì dentro, altrimenti non puoi essere così tranquillo. E mi diventano antipatici, e magari il loro libro mi era piaciuto, o mi sarebbe piaciuto se non l’avessi visto parlare con ostentata sicurezza. Allora mi passa la voglia, come passerà a tutti quelli che verranno alla presentazione mia ora. 

E se quello che mi deve far parlare mi chiede cose che non so? Sono tante le cose che non so. Anzi, non so niente. Ho dimenticato tutto quello che sapevo mano a mano che lo imparavo. Leggevo qualcosa e subito la dimenticavo. I nomi dei personaggi, il titolo dei libri, le date delle guerre, l’ordine di successione dei presidenti, la formula della energia e la colazione di questa mattina. Tutto mi sono dimenticata. Avrò chiuso la porta? La gente si chiede sempre se ha chiuso il gas. Una cosa che non capisco. Quando, chiudete il gas? Inteso come singolo fornello, o prima di uscire di casa chiudete proprio la chiave centrale del gas? Io non potrei vivere pensando che prima di uscire devo sempre chiudere la chive centrale del gas. Allora significa che non c’è speranza, che non ci si può fidare di nulla. E allora che salti tutto, tanto vale.

Quanto manca? Sto sudando, mi sudano le ascelle e la schiena dalla nuca fino alla fine del mondo e ritorno, e meno male che è inverno (nella mia immaginazione la presentazione è d’inverno)

La guerra è sempre con il nostro super ego. Dicono. Con quel boia parassita che ci vive dentro e si nutre  della nostra paura di non essere all’altezza, si fa forte del nostro desiderio di fare qualcosa che rimanga nel sentire di qualcuno quando non ci saremo più. Quando non sarò più in questa libreria di merda e in questo mondo bellissimo. Anche questa libreria è bellissima, come tutte, meno di alcune  a dire la verità, ma quello va a gusti. A me piacciono le librerie di libri vecchi, usati, pieni di polvere, disordinate. Ma anche questa va bene, con i divani e il bar. 

Magari non viene nessuno. Il mio super ego non me lo perdonerebbe mai più, passerebbe il resto dei giorni a dirmi che sono una fallita, una pezzente, ma io-io, quella che si rulla una sigaretta la sera e la fuma davanti alla finestra guardando il tram che si ferma proprio lì sotto, e la gente seduta alla fermata, quelli che vanno, quelli che aspettano, io-io inteso come quella che si lava i denti al mattino, e porta le bambine a scuola, quella parte di me, se ne andrebbe tranquilla a casa. Passando prima dal bar, a questo punto. Gustando la libertà e la rilassatezza che solo un fallimento consumato sa regalare.




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Mercedes Viola