Don Giovanni. Il dissoluto impenitente
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Don Giovanni. Il dissoluto impenitente

Un viaggio accanto a Don Giovanni, prima da clandestina guardando dal buco della serratura, dopo da legale passeggera, per scoprire che la meraviglia è possibile, e trarne ispirazione.

Qui a Milano piove da dieci giorni, ormai anche l’aria del fon è umidiccia. Oggi è sabato e alle quattro del pomeriggio è già buio. A un certo punto approfittando della presenza del socio,  lascio le bimbe a casa, prendo l’unico ombrello sopravvissuto alle dimenticanze e esco a fare due passi. 

Sono arrivata alla triennale, cammino tra istallazioni, e allungando l’occhio nella porta di una mostra di fotografia percepisco di non aver voglia di entrare da nessuna parte, magari al bar,  per prendere un caffè e una bottiglietta d’acqua. Posso avere anche un bicchiere, per favore? E uno che non sia di plastica targato Campari? Grazie, ora sì. Pago e entro in libreria,  guardavo i libri pensando a quelli che avevo a casa ancora da leggere, mi servirebbe tempo libero, qualcuno che mi offra due capitoli ti tempo di qua, due di là. 

Così mentre vagavo nei miei pensieri, improvvisa una musica, attutita, una musica in tuta, come se da qualche parte ci fosse una orchestra dentro una tuta pesante.

Esco dalla libreria inseguendo quei suoni, scendo delle scale, e altre scale ancora, e così mi trovo davanti a un muro; sembrava un cielo, l'ho accarezzato per capire se fosse tela o pittura, ora non ricordo più che cosa fosse, ma quanto era bello. 

Dietro a questo muro si vedeva un piccolo teatro in penombra, solo qualche luce debole sul palcoscenico e cinque o sei persone che provavano qualcosa. Tutta la platea vuota mi faceva pensare che forse non dovevo essere lì, mi sono tolta il cappotto e abbandonandolo con l’ombrello su una poltrona in fondo, ho iniziato ad aggirarmi per il teatro alla ricerca di quei suoni, convincendomi di avere un qualche ruolo definito in quel luogo così che non trasparisse  dalla mia faccia colpevole la circostanza fuorilegge. 

Sono arrivata dietro le quinte dove un giovane stirava al buio totale una camicia bianca, sembrava una visione: un giovane che stira. No, veramente, sembrava una visione la scena di lui al buio che stirava con un ferro vecchio su un tavolo foderato di velluto nero. “Non è a vapore?, si stira molto più facilmente” dissi, “si, ma è finita l’acqua” mi rispose, senza mandarmi a nessun paese né chiedermi cosa facevo lì. Una donna compare nel buio facendo luce col suo telefonino “le maniche sono l’ultima cosa che si stira, vero?” mi chiede cercando conferma, ma io stiro prima collo e maniche e dopo tutto il resto, “ci sono diverse scuole” rispondo, da imboscata non potevo certo permettermi schieramenti drastici.

A questo  punto avrei voluto chiedere cosa stavano preparando, ma si supponeva che io avessi un ruolo lì, quindi non era domanda da fare. La musica si sentiva sempre più vicina, la tuta non era più così ermetica. Sono andata avanti ancora, facendo attenzione a non inciampare nei cavi, cassettoni per terra, attrezzature, ero dietro le quinte quando ho visto una immagine su tela, illuminata nel buio. Bellissima. Una città in bianco in nero, forse riconosco delle cupole, la torre di Pisa. 

Faccio il giro per guardala davanti  ma davanti c’è un’altra tela, una donna d’altri tempi è in piedi e guarda di lato, copre quello che può della sua nudità con una mano e con l’altra sostiene una mela, accanto a lei altre tre mele enormi danno l’unico colore nello sfondo di fiori in bianco e nero. Ma se guardo meglio mi sembra che più che coprirsi si stia toccando, nascosta tra i cespugli, tentata da quel rosso così intenso. La mela sarà un luogo comune, ma fa sempre effetto. Non sono una intenditrice d’arte, ma mi piacciono sempre le opere, dipinti o sculture, dove la gente è nuda. E non è solo questione di sesso, mi piace guardare tutto, i piedi, i polpacci, le vene in rilievo, la forma delle mani, delle braccia, i gesti del viso, i capelli.  Forse anche questo è sesso. 

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Ma io cercavo la musica. Allora ho continuato, con la paura che qualcuno mi fermasse e mi mandasse via. Sono arrivata a una porta anonima dove vedo qualcosa per niente anonimo: il Don Quijote stampato sulla custodia bianca di un violoncello. Il Don Quijote era l’immagine del giornale “El Diario” della mia città in Argentina, un’immagine che accompagna il mio mondo interiore da quando ho memoria, quando alle sei del mattino arrivava il giornalaio in bicicletta, con la molletta a tenere lontano il pantalone dalla catena, e lanciava il Don Quijote dentro casa mia, attraverso la fessura della finestra. 

E ora lo trovo lì, a custodire uno strumento dalla voce grossa, e  attorno a Don Quijote lo spettacolo: un’orchestra contenuta nel numero ma con tutti i suoni necessari, in una formazione che non avevo mai visto: due file di musicisti gli uni di fronte agli altri e a dividerli un unico lunghissimo leggio, una specie di ultima cena orchestrale con a capo tavola il direttore spettinato, che sembra più rockettaro e punk che classico medioevale, con la voce graffiante, sabbiosa. “Piano, pianissimo! SHHHHH! Pianissimo ho detto!”. Urla e gesticola, ancora e ancora. Si sono fermati a quella piccola frase e la ripetono una, cinque, dieci volte, urla indicazioni, stringi! mordi quel do! piano tu, shhh!. Guardo i musicisti. Nessuno se la prende. Si fermano tutte le volte e ripartono altrettante, nessun gesto tra di loro, nessuna scocciatura, a volte serietà, altre una risata, e riattacca, riprova, riparte, lui urla, alza le braccia, flette le ginocchia, si tocca i cappelli. Che bellezza. Per favore fai che non mi caccino via. Quando la musica sembra arrivare all’asticella del suo orecchio allora lui ci mette il canto  ed è surreale. Mi spiego meglio, non è che canti, con quella voce timbro tabacco e notte lunga, la legge intonandola un po’ al ritmo della musica mentre dirige l’orchestra.

In quel momento entrano due uomini, jeans e maglione, forse soffrivano per questa esecuzione vocale alla Vasco e si sono detti “dai, andiamo a fermarlo”. E in piedi dietro due violini, guardando al maestro a capotavola, tirarono fuori delle voci che mi fanno venire la pelle d’oca, quella che ho già in superficie e quella che si deve ancora formare. Ero sopraffatta dall’emozione di quel momento, non solo per la musica, ma per il momento, l’incontro tra il sacro dell’arte e il profano del lavoro d’operaio che sull’arte si scagliava, con i vestiti da battaglia, jeans e scarpe da ginnastica, la borsa di tessuto ecologico appesa allo schienale della sedia, la fame dopo un giorno di prove, la pettinatura scomposta, gli occhiali che scivolano giù nel naso, la maglietta scolorita, i telefonini senza suoneria, le figlie neo adolescenti che aspettano in fondo facendo i compiti; ordini impartiti senza convenevoli, ordini esasperati incassati con umiltà e voglia di eseguirli, non bene: alla perfezione; la testarda volontà di provare fino a raggiungerla. Quella era una “prova”, niente di più lontano da un “tentativo”, la “prova” era una sfida, e non si smetteva fino alla vittoria.

E in questa orgia di pensieri ed emozioni scordandomi del mio ruolo di clandestina,  ho chiesto al signore dietro il quale ero accovacciata “Chi sarebbero?”. Lui senza girarsi completamente ma scostando minimamente la testa nella mia direzione disse “Don Giovanni e il Commendatore, che torna da morto a punirlo, 'pentiti!' gli dice, 'non ci penso neanche!' risponde Don Giovanni, per dirla in due parole” disse a bassa voce e con la erre moscia, “grazie” dico e continuo a guardare. Ma il signore torna a guardare verso il lato dove ero: “e lei chi sarebbe?” mi chiede, riscattandosi anche lui dalla commozione e accorgendosene della mia domanda fuori luogo. “Potrei essere qualcuno che ha qualche ruolo qui dentro?” rispondo domandando, in una specie di confessione. “Non credo, cosa ci fa qui? lo so che non può stare qui dentro” mi dice a bassa voce, senza cattiveria ma senza civetteria, “Ha ragione” gli dico, “Si penta” propone con un sorriso bastardo, “non ci penso neanche” gli dico, grata.  Mi sono sistemata la tracolla e sono sparita da dove ero venuta.

Il sabato successivo mi sono vestita per l’occasione e sono tornata  al teatro passando dalla biglietteria.

C’erano tutti quelli che avevo visto confusamente spiando dalla serratura ma ora la tavola era imbandita con metodo e condotta, così anche noi, vestiti a festa come loro, ci siamo accomodati lasciandoci condurre, partecipi  e protagonisti, dalle voci,  dai suoni e dalle immagini, precipitando gradualmente in un'epoca atemporale, stratificata e fluida. Le tele hanno preso vita nel palcoscenico diventando strade, palazzi, metafore, suggestioni. Ho guardato a lungo gli orchestrali, ho guardato a lungo il Direttore della orchestra, così come da piccola guardavo esclusivamente il domatore nel circo, e l’ho visto sorridere, aver voglia di gridare, di cantare, sembrava che fossero le sue mani a dare vita al tutto. Finita l'opera abbiamo applaudito fino a quando i bicipiti non tenevano più.

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Solo tre cose, e poi vi lascio:

Le pareti sono foderate di carta.

Il dissoluto non si pente.

Guardare da clandestina è stato per me il vero spettacolo.

Ho recuperato l'ombrello dimenticato il sabato precedente e sono tornata a casa, ringraziando i dissoluti, i Don Giovanni, i geni matti, i musicisti, i pittori, gli spettinati, gli scultori, gli scrittori, i Don Quijote di questo mondo, che lo rendono un posto dove, nonostante le nostre cattiverie e la nostra mediocrità, vale la pena viverci, per cercare serrature dove poggiare un occhio e vedere che la meraviglia è possibile, e trarne ispirazione. 







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Mercedes Viola