Cuore migratorio
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Cuore migratorio

Parcheggiata la macchina davanti al fiume sono scesa con lo zaino in spalla e i guanti in mano. Mi viene incontro il ragazzo del parcheggio. “Signora, gliela guardo?” mi chiede. "Sì, grazie, quanto costa?” chiedo, perché con l’inflazione non so mai se quello che ho basta, non basta o avanza.  “A volontà, quello che vuole lei, gliela lavo anche se vuole, vedrà, come nuova gliela lascio”. Accetto e attraverso la strada per andare in palestra, al capannone dove faccio boxe in Argentina.

Temevo. Joaquin Sabina dice che nei posti dove sei stato felice non dovresti tornare. Ma io, pur adorando Sabina e la sua poesia, ci torno sempre che posso. E spesso sono felice. Diverso, ma di nuovo.

C’era Carmen, con il piede gofio su una sedia. Si era fatta male a una caviglia. Suo marito, Roque, il vecchio boxeur che presidia la palestra, a casa le dice di stare ferma, ma lei non ce la fa. Un beso sulla guancia a Carmen e vado dentro. Sono le cinque, l’ora dei veri boxeur che si accaniscono contro i sacchi appesi ai ganci sulle travi, a suon di cumbia.

Bisogna fasciare bene le mani, sopratutto se sei un principiante come me. Passare la benda  tra le dita e poi sul polso, altrimenti la mano non è ferma e ti fai male. Perché i principianti possiamo avere pure forza e motivi, la rabbia o il dolore, ma ci dimentichiamo di tenere il pugno fermo. E picchiamo duro e male, e quel male resta con noi. Dopo le bende si infilano i guanti, e al sacco.

Sono contenta, e ho voglia di piangere. Quién me va a curar el Corazón partido, chi mi guarirà il mio cuore spezzato, canta Alessandro Sanz, che non mi piace ma quello è un ritornello fisso nella mia mente, il tormentone dell’ave migratoria che sono. 

Nessuno me lo guarirà. Perché dovrò partire, e perché voglio partire. Ma voglio anche restare. Con tutte le miserie di tutti i mondi, del vecchio e del nuovo, senza bugiarde idealizzazioni. Vorrei sdoppiarmi, duplicarmi, e viverli in contemporanea, con le iguane tra i piedi e l’Arco della pace, il suono delle cicale e del tram sotto casa. Gli amici di là e gli amici di qua. Con le due lingue, con tutti i dialetti e con tutte le musiche.

Nessuno guarisce i cuori migranti. Non c’è cura per loro né bypass né trapianto. Non potrò mai essere cittadina del mondo, con questo cuore qua. Perché fa radici sparse e poi batte fuori tempo.

Fuori il ragazzo avrà portato il suo secchio pieno d’acqua e la sua spugna per lavare la macchina e lasciarla nuova. Ha un gilet giallo, forse gliel’ha imposto il municipio, forse gli da un po’ di autorevolezza di fronte a tutti quelli che parcheggiano lì per andare a correre o camminare sul largo e lungo marciapiede panoramico che accompagna il fiume. Raggazzo emigrato dai propri sogni. 

Uno, due. C’è la tentazione di allontanare il pugno e prendere rincorsa, ma così sembri un disperato, uno che affoga, e ti fai male, per di più ti scopri e rischi. Il pugno parte dal mento, e il corpo, ben piantato, lo accompagna e gli dà la forza.

Poche volte uno capisce in situ la bellezza e l'intensità di ciò che si sta vivendo. Bisogna perderlo tutto e poi viene più facile. Come mangiare un babà dopo  mesi a dieta ferrea, o bere un bicchiere di Malbec reserva dopo un anno astemio.

Esco. La macchina brilla, davvero sembra nuova. Salgo, e raggiungo il ragazzo che sta più avanti con il suo secchio, lavando un’altra macchina. Gli dò i soldi e lo ringrazio, lui mi guarda con gli occhi scuri e sereni come il fiume cresciuto che abbiamo davanti e ci fa da testimone, sorride e mi ringrazia a sua volta.

Il gatto domestico graffia le porte perché non fa il suo “lavoro naturale”. Non so bene quale sia il lavoro naturale di noi umani,  ma credo che nel nostro graffiare le porte si nasconda la possibilità di consolarci, di redimerci e di creare bellezza.




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Mercedes Viola