Un medico di base al lavoro in ambulatorio (GettyImages).
Salute

Senza clorochina i medici di famiglia a mani nude contro la seconda ondata

  • Panorama ha condotto un'indagine approfondita per capire come l'Italia si sta preparando ad affrontare la seconda ondata di Covid 19. L'inchiesta è pubblicata in tre puntate a partire dal 13 ottobre.
  • Prima puntata: La Cenerentola della lotta contro la pandemia.
  • Seconda puntata: La medicina territoriale priva di strumenti diagnostici e terapeutici
In pieno autunno caldo, il tanto decantato territorio è, in gran parte dei casi, ancora abbandonato a se stesso. E, dopo il ritiro dell'autorizzazione, ha perso l'unico presidio che la scorsa primavera poteva usare contro il Covid : l'idrossiclorochina. Tanto che i Medici in prima linea stanno pensando a una mossa estrema.

Questa volta la Campania ha brillato per efficienza, superando molte regioni, Lombardia compresa. L'8 ottobre, la regione guidata dal governatore Vincenzo De Luca ha presentato le linee guida per la «gestione del paziente Covid 19 a domicilio». Il documento, elaborato dall'Unità di crisi regionale, definisce cinque tipologie di pazienti, da quelli asintomatici a quelli con sintomi moderati. E per ogni categoria indica il monitoraggio previsto (dall'isolamento all'ecografia polmonare), la terapia farmacologica (dalla vitamina C al cortisone) e le azioni da intraprendere (dal contatto con il medico di base alla chiamata del 118).

A prescindere dalle regioni italiane che già nella prima ondata si erano distinte per solerzia nella gestione del Coronavirus, come Veneto ed Emilia Romagna, le altre non stanno fornendo ai medici di base indicazioni chiare su come gestire a casa i quadri clinici di lieve e media entità. E tanto meno lo sta facendo l'Aifa, l'Agenzia italiana del farmaco.

A livello locale ci sono però lodevoli eccezioni. La Aft Brescia Nord ha per esempio prodotto delle sue linee guida. Il verbale dell'assemblea del 9 ottobre dei coordinatori Aft (Aggregazione funzionale territoriale) Brescia e Valle Trompia fornisce indicazioni ai medici di famiglia e definisce le funzioni del Centro territoriale prevenzione e monitoraggio Covid. Pensato «per pazienti con forte sospetto Covid di gravità media», il centro effettua tamponi, radiografie e valutazioni da parte di infettivologi.

Ma, al di là di casi circoscritti, alla vigilia delle seconda ondata la medicina territoriale è ancora abbandonata a se stessa, come già avvenuto in occasione della prima ondata. E pensare che il ruolo cruciale dei medici di base in una pandemia dovrebbe ormai essere un dato di fatto incontrovertibile.

«Potenziare la medicina territoriale» è il nuovo mantra, la formula magica per sconfiggere in modo definitivo la pandemia. Lo ha detto in tv il professor Massimo Galli dell'Ospedale Sacco di Milano («La guerra contro questo virus si fa sul campo») e lo ha scritto suRepubblica il direttore Maurizio Molinari («La soluzione è curare i pazienti meno urgenti nelle proprie abitazioni»). Lo ha ripetuto alla nausea il professor Andrea Crisanti dell'Università di Padova, il primo a dire che la battaglia contro il Covid si vince sul territorio («Ogni malato in rianimazione è una sconfitta») e lo ha ribadito il suo collega Guido Silvestri, della Emory University di Atlanta («Prepariamoci a livello di medicina del territorio»). Lo ha riconosciuto persino Attilio Fontana, il presidente della Regione Lombardia: «Ci è stato detto dagli esperti che dobbiamo insistere sull'associazione dei medici di base».

Meno chiaro è come il territorio debba rispondere all'emergenza. In occasione della prima ondata si è trovato totalmente impreparato, in particolar modo in Lombardia. Oggi la storia si ripete, nonostante i preziosi mesi estivi che sarebbero potuti servire per rafforzare le strutture territoriali. Il 15 maggio scorso, Panorama ha pubblicato un'inchiesta su come i servizi sanitari stavano preparandosi all'autunno caldo, chiedendo al professor Crisanti cosa si sarebbe dovuto fare. Risposta: «Bisognerebbe creare un vero servizio epidemiologico territoriale che identifica tutti quanti i casi e fa la geolocalizzazione, che costantemente dà informazioni sulla formazione dei cluster, che guida la capacità di reazione che nel frattempo si è formata, con personale che va a fare i tamponi, che isola i casi, che li controlla... Così si fa. Questo significa vincere il Covid-19 sul territorio». Un percorso che il 16 maggio, in un'intervista a Panorama, l'assessore al Welfare di Regione Lombardia Giulio Gallera aveva detto di condividere, promettendo «uno scatto in più», con nuove misure per «rimettere il territorio al centro».

Ebbene, a cinque mesi di distanza, per lo meno in Lombardia, il sistema è ancora ospedalo-centrico. «Il territorio, per lo meno come lo conosciamo noi, in Lombardia non esiste» sbotta il dottor Andrea Mangiagalli, che esercita a Pioltello (Milano). «Tutti guardano al territorio, che non si capisce bene cosa sia. Manco giocassimo ancora a Risiko, quando ti toccavano i Territori del Nord-Ovest e non sapevi dove fossero».

Al di là delle battute di spirito, il promotore del gruppo Medici in prima linea spiega che «il territorio esiste in Veneto e in Emilia Romagna, due regioni con colore politico diverso dov'è possibile fornire ai malati le terapie ospedaliere a domicilio, perché offrono una copertura territoriale: da parte delle case della salute in Emilia o con la domiciliarità in Veneto. In Lombardia invece, con l'eccezione di Brescia, per il tampone, ma anche per ecografie, lastre o prelievi, si deve mandare i pazienti negli ospedali, o al massimo nei centri ambulatoriali o nei drive-in». Quindi tutto grava ancora sugli ospedali? «In sostanza sì: la diagnostica è tutta ancora all'interno del percorso ospedaliero». E le famose Usca, presentate con grande fanfara? «Al momento non risulta che sul territorio di Milano siano attivabili».

E dal punto di vista terapeutico, che margini di manovra avete? «Ormai, dopo il ritiro dell'autorizzazione da parte dell'Aifa, abbiamo perso l'unico presidio che potevamo utilizzare durante la prima ondata, che è l'idrossiclorochina» continua Mangiagalli. «Ci rimane solo l'eparina, e se serve l'antibiotico. Poco altro. Anche perché la maggior parte dei farmaci tuttora usati sono di uso esclusivamente ospedaliero. Peraltro con somministrazione endovena: quindi a domicilio si porrebbe il problema di come farla». Mi pare di capire, dunque, che vi rimangono solo terapie di contorno? «Sì, terapie cosiddette di supporto, che peraltro non sono ancora state ufficialmente sdoganate dall'Aifa. Si tratta di schemi lasciati alla libera iniziativa dei medici».

Rispetto a marzo dove al centro della terapia c'era l'idrossiclorochina e come contorno avevate l'eparina e l'antibiotico, adesso vi è dunque rimasto solo il contorno? Il centro è sparito? «Assolutamente sì. Se parliamo di farmaci con azione strettamente antivirale, o comunque con efficacia sulla causa della malattia, non abbiamo nulla» spiega sconsolato il leader del gruppo Medici in prima linea. «Possiamo solo usare farmaci di tipo preventivo sul danno da Covid, ma non sicuramente ad azione diretta sul virus». Insomma, arrivati alla seconda ondata del Covid ci ritroviamo ai nastri di partenza? «Dal punto di vista della conoscenza della malattia no, dal punto di vista dell'armamentario terapeutico sì» ammette Mangiagalli.

Tanto che, per poter tener fede al giuramento di Ippocrate, i Medici in prima linea stanno ipotizzando una mossa estrema: «Stiamo ragionando, anche dal punto di vista medico-legale, su cosa fare per fornire comunque una terapia ai nostri pazienti». In realtà, l'unica disponibile è l'idrossiclorochina, che si trova in farmacia a un costo irrisorio: l'originale, il Plaquenil, costa 6,08 euro e la versione generica 5,12 euro. Tutti gli altri farmaci sono solo di uso ospedaliero.

Già, gli ospedali... Per capire che farmaci possono usare, abbiamo chiesto all'ospedale di Niguarda di Milano, finito nel 2019 e nel 2020 nella classifica di Newsweek dei 50 migliori ospedali del mondo. «Per il Covid in questo momento abbiamo a disposizione una diagnostica avanzata in pronto soccorso, dove oltre ai normali esami possiamo valutare la situazione del polmone sia con un'ecografia sia con una Tac ad alta risoluzione» spiega il professor Massimo Puoti, direttore del reparto Malattie infettive. «Per ora possiamo fare il tampone e speriamo presto anche l'antigene, in modo da identificare in tempi brevi se c'è o no l'infezione. Quando si presenta un paziente che ha già un'insufficienza respiratoria ricorriamo al cortisone, terapia approvata da Aifa che usiamo anche in reparto. Si tratta del famoso desametasone, l'unico farmaco sul quale esiste uno studio sperimentale con un'elevata attendibilità, Recovery, realizzato nel Regno Unito. Usiamo anche l'eparina e altri farmaci sulla base di protocolli sperimentali, fra cui uno italiano con il plasma. Infine speriamo di poter usare prima possibile, seppur a livello sperimentale, gli anticorpi monoclonali».

L'arma migliore in mano agli ospedalieri è dunque il cortisone. Particolarmente efficace, oltre che a basso costo, il farmaco tuttavia non può essere usato fuori dall'ospedale. «In effetti» ammette Puoti, «il desametasone ha dimostrato la sua efficacia in pazienti sotto ossigeno». Allo stesso modo non può essere usato l'antivirale Remdesivir, che oltre a costare una fortuna (2.070 euro per paziente), è indicato per pazienti con polmonite che necessitano di ossigenoterapia supplementare. Quindi che cosa può fare il medico di famiglia con i malati a domicilio? «Se è in grado di fare esami di laboratorio, può prescrivere l'eparina» risponde il professor Puoti. «Senza diagnosi, realisticamente può dare un antipiretico o un anti-infiammatorio non steroideo e la tachipirina».

Non molto. Resta solo l'idrossiclorochina. Molecola a buon prezzo, facilmente reperibile e che ha ottenuto buoni risultati negli studi clinici, non può essere più prescritta. Motivo: in seguito a uno studio farlocco pubblicato il 22 maggio su The Lancet, e 13 giorni dopo ritirato, l'Aifa ne ha sospeso l'autorizzazione. E qui potrebbero entrare in campo i Medici in prima linea, con la loro mossa da kamikaze.

«In teoria, ottenendo il consenso informato del paziente per il suo utilizzo off-label si potrebbe ancora prescriverla» valuta Mangiagalli. «Informando il paziente dei rischi, se questo accettasse di condividerli con il medico (come succede peraltro con altri farmaci in contesti diversi), sarebbe possibile somministrare l'idrossiclorochina fuori dal servizio sanitario nazionale. Chiaramente, però, il medico si esporrebbe in prima persona». Perché prescrivere l'antimalarico per trattare il Coronavirus significherebbe contravvenire al diktat dell'Aifa. Andando incontro a guai.

(Continua)

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