Rubli alla Lega, era tutta fuffa
Gianluca Savoini (Ansa)
Politica

Rubli alla Lega, era tutta fuffa

Il caso Metropol ha partorito il nulla. La Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione dell’accusa di corruzione internazionale per la presunta cricca di sei persone, tre italiani e tre russi, che nell’hotel moscovita avrebbe trattato un enorme affare petrolifero.

Lo strombazzatissimo caso Metropol ha partorito il nulla. La presunta cricca di sei persone, tre italiani e tre russi, che a un tavolino dell’hotel moscovita, il 18 ottobre del 2018, avrebbe trattato un gigantesco affare petrolifero per finanziare illegalmente la Lega di Matteo Salvini con ogni probabilità non sarà processata. Infatti ieri la Procura di Milano ha chiesto l’archiviazione dell’accusa di corruzione internazionale per tutti. Nel 2019 i media di mezzo mondo avevano pensato di avere in mano l’arma decisiva per affossare Salvini, appena uscito trionfatore dalle elezioni europee di maggio. La valanga aveva iniziato a montare a febbraio con i primi pezzi e l’uscita del Libro nero della Lega, ma lo smottamento divenne vera slavina quando siti internazionali iniziarono a diffondere l’audio consegnato ai giornalisti dell’Espresso con ogni probabilità, come ricostruisce adesso la Procura di Milano, dall’avvocato massone Gianluca Meranda. Ora i magistrati di Milano, guidati dall’aggiunto Fabio De Pasquale, dopo tre anni e mezzo di infruttuose indagini sono stati costretti a chiedere l’archiviazione per tutti gli indagati a partire da Gianluca Savoini, il discusso lobbista che avrebbe preso parte all’incontro del Metropol.

Il procedimento per cui è stata chiesta l’archiviazione coinvolge anche Meranda e l’ex sindacalista e collaboratore dell’avvocato calabrese Francesco Vannucci. Il reato di corruzione internazionale sarebbe stato commesso tra Roma, Milano e Mosca tra il 10 marzo 2018 e il 29 ottobre dello stesso anno. Il procedimento è stato avviato, inizialmente a carico di ignoti, dopo la pubblicazione, a cavallo di febbraio e marzo 2019, di due articoli dell’Espresso: «Quei 3 milioni russi per Matteo Salvini: ecco l’inchiesta che fa tremare la Lega» e «La lunga trattativa di mister Lega». I servizi rilanciavano quanto già contenuto, seppur un po’ nascosto, nel Libro nero della Lega.

I giornalisti, sentiti come persone informate dei fatti, hanno confermato di aver osservato in diretta l’incontro del Metropol, dopo essersi appostati a un altro tavolo, e hanno consegnato un file audio che, secondo la Procura non era stato manipolato e che «con un grado di elevata probabilità» era stato realizzato da Meranda. La Procura è convinta che i cronisti fossero nell’albergo il giorno dell’incontro. Ma, come abbiamo già scritto nel 2019, a noi questa ricostruzione sembra del tutto incongrua visto che i giornalisti non fecero alcuna foto della riunione, neppure da lontano, e dentro al libro, pubblicato quattro mesi dopo il summit e dopo varie revisioni, la storia di quel meeting occupò solo poche pagine e in essa si parlava di cinque partecipanti. Davvero strano che dei testimoni oculari, giornalisti investigativi di professione, non siano stati in grado né di effettuare uno scatto, né di contare i presenti a un appuntamento per cui erano partiti dall’Italia.

La Procura avrebbe individuato con certezza due dei russi seduti a quel tavolo. Si tratta di Andrey Yuryevich Kharchenko e di Ilya Andreevich Yakunin. Il primo all’epoca era dirigente del movimento politico International Eurasian movement, fondato ed animato da Alexander Gel’evic Dugin, il filosofo considerato uno degli ideologi di Vladimir Putin. Dugin, in quel momento, era anche presidente onorario dell’associazione Piemonte-Russia, gemella dell’associazione Lombardia-Russia guidata da Savoini. Il secondo era il vice direttore generale di una società partecipata del governo russo, nonché membro di un’azienda di investimenti operante nel settore della produzione e del commercio di petrolio e gas, controllata da una società fondata, tra gli altri, dall’avvocato Vladimir Nikolaevich Pligin, socio di studio dell’ex vicepremier ed ex ministro dell’Energia industriale Dmitry Nikolayevich Kozak. Intrecci suggestivi che, però, non costituiscono reato. Secondo l’accusa il gruppo si sarebbe attivato, in particolare nella seconda metà del 2018, per concludere accordi commerciali riguardanti il petrolio con fornitori russi al fine di stornare dalle transazioni ingenti somme di denaro da destinare al finanziamento della Lega, in vista delle elezioni del 2019, ma anche per il personale tornaconto dei partecipanti all’accordo.

Gli investigatori della Guardia di finanza hanno quantificato, solo per una delle due forniture richieste, in 110 milioni di dollari il profitto che sarebbe stato così suddiviso: due terzi per i mediatori italiani e un terzo per quelli russi. Una parte sarebbe andata come commissione all’unica intermediaria in chiaro, la banca Euro IB. Però gli elementi acquisiti dalla Procura hanno consentito di accertare che l’operazione non si è conclusa, probabilmente a causa del niet arrivato dall’amministratore delegato della russa Rosneft, Igor Sechin, il quale non avrebbe concesso il proprio assenso a causa dell’eccessiva entità dello sconto, richiesto dalla banca Euro IB sulla base degli accordi tra negoziatori italiani e russi. Difficile immaginare, quindi, che il governo russo e i suoi principali esponenti fossero della partita.

Secondo gli inquirenti che hanno chiesto l’archiviazione, però, le registrazioni audio e «altri elementi» porterebbero a ritenere che Salvini fosse a conoscenza delle trattative. Tuttavia, non sarebbero mai emersi elementi concreti di una partecipazione del segretario della Lega alla negoziazione o del fatto che il vicepremier abbia fornito un contributo al suo successo.

Inoltre non esiste prova che Salvini sia mai stato messo al corrente dell’intenzione da parte dei mediatori russi di remunerare i pubblici ufficiali di Mosca, ipotesi che aveva portato alla contestazione della corruzione internazionale. Per questo il ministro delle Infrastrutture non è mai stato iscritto sul registro degli indagati, né sono state effettuate investigazioni nei suoi confronti. Ma perché è stata chiesta l’archiviazione di tutte le accuse? Perché l’indagine non ha individuato i soggetti russi che avrebbero dovuto essere «oliati» per portare a casa la commissione monstre, ovvero «la percentuale di sconto eccedente il 4%». «Whatever is above 4, we can return it» ha detto ai russi Meranda mentre appuntava sulla propria agenda «come concordato, lo sconto minimo corrisponde al 4%, mentre qualunque tasso di sconto superiore al 4% sarà restituito a (parola incomprensibile, ndr)».

I magistrati sanno che per procedere nell’inchiesta era indispensabile l’identificazione dei presunti destinatari delle mazzette, oltre a Dugin, Kharchenko e Yakunin, tutti e tre soggetti che non sembra abbiano rivestito funzioni pubbliche in questa trattativa. E a impedire ai magistrati di scoprire i presunti referenti dentro alle aziende di Stato russe della cricca sarebbe stata la mancata risposta di Mosca alla rogatoria inoltrata dagli inquirenti meneghini il 15 luglio 2021 e sollecitata il 22 febbraio 2022. Dunque la Procura, già scottata dal precedente del processo Eni-Nigeria, ha dovuto concludere che le contestazioni penali non avrebbero retto in alcun modo in un processo. Neanche l’ipotesi di tentato finanziamento illecito della Lega ha trovato alcun riscontro. Sebbene per le toghe l’obiettivo fosse senza dubbio quello di rimpinguare le casse del Carroccio, il tentativo non avrebbe raggiunto alcuno «stadio di concretezza».

Il pool guidato da De Pasquale, nemico giurato dell’Eni, neppure in questo caso avrebbe mancato di far arrivare una frecciata all’azienda petrolifera. Infatti a giudizio dei magistrati la società Ets del gruppo del Cane a sei zampe sarebbe stata disponibile a imbarcarsi in un’operazione del tutto antieconomica, accettando di acquistare a prezzo pieno un prodotto ceduto dal fornitore russo con un forte sconto (4% o 6.5%). Ma l’operazione di compravendita si fermò alla fase embrionale e non arrivò neppure allo scambio di documenti contrattuali e, quindi, non vi è alcuna certezza che Ets o chi per lei avrebbe accettato di pagare per consentire alla Lega di mettere da parte la provvista. Secondo i pm per il perfezionamento dell’accordo si sarebbero tenuti numerosi incontri, circa 40 in poco più di un anno, e i mediatori italiani, con in testa Savoini, avrebbero effettuato vari viaggi a Mosca per incontrare le controparti.

A inizio giugno del 2018 Savoini, Vannucci e Meranda avrebbero visto a Mosca l’esponente di Russia unita Konstantin Kosachev, il petroliere Nikolay Eliseev e, con buona probabilità, anche l’oligarca Konstantin Malofeev, oltre a un suo stretto collaboratore, Yury Burundukov. Dalla Russia, l’1 agosto, Savoini contattò Meranda e il giorno successivo Vannucci, il quale, poi, avrebbe chiamato l’avvocato calabrese. Il 3 Meranda inviò a Savoini e Vannucci una bozza di offerta di fornitura petrolifera che, subito dopo, Savoini avrebbe girato a Dugin. Dal 27 al 30 agosto i tre italiani avrebbero incontrato a Mosca Pligin, Kharchenko, Dugin ed Ernesto Ferlenghi, responsabile di Eni in Russia nonché presidente di Confindustria Russia. L’1 ottobre, tramite Whatsapp, Meranda comunicò a Yakunin quanto segue: «Caro Ilia, confermo che saremo a Mosca il 17 ottobre per finalizzare l’accordo dal punto di vista politico. Saluti, Gianluca»

. Il 18 ottobre, infine, ci fu l’incontro del Metropol, durante il quale Savoini ribadì la natura politica dell’operazione. Yakunin gli avrebbe fatto eco: «Ora stiamo parlando di questa decisione politica». E Meranda aggiunse: «È molto semplice: il programma fatto dai nostri politici [political guys] era che, con uno sconto del 4%, 250.000 più 250.000 al mese per un anno, potevano sostenere la campagna. …». Tutte frasi che ovviamente lasciano il tempo che trovano visto che non vi è prova che i tre indagati fossero emissari certificati della Lega.

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Giacomo Amadori

(Genova, 1970). Ex inviato di Panorama e di Libero. Cerca di studiare i potenti da vicino, senza essere riconosciuto, perciò non ama apparire, neppure in questa foto. Coordina la sezione investigativa dellaVerità. Nel team, i cronisti Fabio Amendolara, Antonio Amorosi e Alessia Pedrielli, l'esperto informaticoGianluca Preite, il fotoreporter Niccolò Celesti. Ha vinto i premi giornalistici Città di Milano, Saint Vincent,Guido Vergani cronista dell'anno e Livatino-Saetta.

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