La produzione mondiale di queste memorie elettroniche scarseggia da un anno. Il motivo? Durante la pandemia, l’industria ha dirottato gran parte delle sue forniture verso la tecnologia di consumo, a scapito di altri settori. Primo fra tutti quello dell’automobile. Ma su questi mini «cervelli» pesa anche la guerra fra Stati Uniti e Cina, che lottano per assicurarsene la supremazia, sbilanciando il mercato.
Quando 50 anni fa, il fisico italiano Federico Faggin inventò il primo microchip della storia, alla Intel, forse non immaginava che attorno a queste minuscole memorie elettroniche si sarebbe scatenata una guerra tra grandi potenze per la supremazia tecnologica. I microprocessori sono circuiti elettronici, i «cervelli» all’interno di computer, server, telefonini, automobili, fotocamere, frigoriferi, radio, tv; sono il cuore del 5G, dell’intelligenza artificiale, asset fondamentali per quasi ogni aspetto della modernità. Un settore che, secondo l’agenzia Bloomberg, vale oltre 500 miliardi di dollari.
Cosa accadrebbe se questi micro-computer iniziassero di colpo a scarseggiare? Se la produzione fosse nelle mani di pochi, in grado di mettere sotto scacco interi Paesi? E ciò succede da più di un anno. Tutto inizia a dicembre 2019 con l’arrivo della pandemia, anche se il Covid c’entra fino a un certo punto. La circolazione del virus ha rallentato la produzione delle aziende di tutto il mondo e ostacolato le forniture. Ma ha anche modificato i consumi. Imprese e scuole hanno chiuso e le attività si sono trasferite nelle case. È esplosa la domanda di prodotti elettronici, computer più sofisticati, smartphone più performanti, televisori con più pollici.
«L’industria dei microchip, abituata a programmare la produzione sul breve termine, si è trovata spiazzata e ha dovuto scegliere a quale settore dare la priorità. E siccome la tecnologia di consumo è la più profittevole, ha dirottato qui la maggiora parte delle forniture a scapito di altri comparti tra cui l’automobile» spiega a Panorama Michele Bertoncello, partner di McKinsey ed esperto di strategie dell’automotive. «Una vettura moderna monta un numero di microprocessori maggiori di un computer ma al mondo ci sono più pc che vetture».
Per il colosso mondiale di microchip, la Tsmc di Taiwan, l’industria dell’auto rappresenta solo il 3 per cento del suo mercato. Certo, i problemi li hanno sentiti anche i big tech. Apple, secondo alcune indiscrezioni, è stata costretta a riprogrammare la produzione dei modelli di iPad e MacBook per non compromettere l’approvvigionamento dei componenti del nuovo iPhone13 in arrivo in autunno. Samsung, pur essendo tra i maggiori produttori di microchip al mondo, e il primo di smartphone per vendite, ha fatto sapere di avere problemi di fornitura.
Ma i guai veri li ha avuti l’auto. Se mancano i chip per la strumentazione digitale o la frenata automatica, una vettura non può essere completata. Tutti i colossi dell’automotive, da Mercedes a Toyota, da Stellantis a Gm hanno subito pesanti contraccolpi dalla carenza di microprocessori e sono stati costretti a ridurre la produzione.
La crisi non è passeggera. Intel, altro gigante dei microchip, ha previsto che la mancanza di componenti potrebbe protrarsi almeno per altri due anni. Perché c’è un altro fattore condizionante, non legato alla pandemia: la guerra per la supremazia tecnologica tra Stati Uniti e Cina. Nel 2018 il settimanale The Economist scriveva che «l’industria dei microprocessori è quella in cui la leadership industriale americana e le ambizioni da superpotenza cinese si scontrano in modo più diretto». I circuiti fanno muovere gli eserciti e le attività di Difesa, sicurezza e aerospazio, e sono cruciali nel cyberspionaggio.
Secondo la Semiconductor industry association (Sia), le aziende americane rappresentano il 30 per cento della produzione mondiale di chip, ma solo il 19 è effettivamente realizzata negli Stati Uniti, che consumano il 25 per cento dei chip prodotti nel mondo. In Cina invece hanno sede le aziende da cui proviene il 26 per cento della produzione di chip, mentre il mercato interno assorbe il 24 per cento dei beni finali. L’industria più avanzata di microchip appartiene a tre grandi gruppi: Intel negli Usa, Tsmc a Taiwan e Samsung in Corea del Sud. Le due aziende asiatiche sono più avanti come tecnologia e insieme detengono il 70 per cento della produzione mondiale.
Gli Usa stanno cercando di riconquistare la leadership e di contrastare l’avanzata di Pechino. Il presidente Joe Biden ha stanziato 50 miliardi di dollari per rafforzare la capacità produttiva e per la sorveglianza sull’uscita di tecnologia dagli Stati Uniti. Già Donald Trump, con il Foreign Direct Product Rule, aveva impedito alla cinese Huawei di usare software americani. In risposta le aziende di Pechino hanno aumentato la riserva di chip, sbilanciando il mercato. La Cina ha intensificato anche la conquista di aziende ricche di know how. Il caso più recente è stato il tentativo della Shenzhen investment di acquisire il 70 per cento dell’italiana Lpe, produttore di reattori destinati ai semiconduttori. Un colpo andato a vuoto per l’intervento del premier Mario Draghi. Il «deficit» di chip ha riproposto alla Ue il tema dell’autonomia da Stati Uniti e Cina. L’Europa ha il 10 per cento della produzione ma è il mercato finale dei beni che contengono il 20 per cento dei chip. Bruxelles ha destinato 145 miliardi di euro a progetti digitali, un quinto del fondo per la ripresa economica dalla pandemia, e sta esaminando l’ipotesi di costruire una fabbrica per produrre semiconduttori coinvolgendo Tsmc e Samsung. Ma queste buone intenzioni potrebbero non bastare. «Senza una politica comune sulla microelettronica, l’Europa non otterrà la sovranità digitale. Ogni Paese si muove per conto proprio e questo, sul piano internazionale, mette ai margini la Ue» commenta Giuseppe Gagliano, presidente del Centro studi strategici Carlo de Cristoforis.
Alle aziende però serve una soluzione immediata. «La creazione di una fabbrica di microchip richiede 12-18 mesi e investimenti per centinaia di milioni di euro. Per aumentare la produttività servono sei mesi» dice Michele Bertoncello. «Così l’automotive ha cambiato strategia e tende a stipulare con i fornitori dei circuiti integrati contratti a lungo termine per non restare senza scorte».
C’è chi ha reagito tornando al passato. La Peugeot 308 restyling ha scelto la strumentazione analogica anziché digitale, e il contatore ad aghi al posto di quello digitale. I vari chip sono stati dirottati verso la produzione della Peugeot 3008. La Chevrolet sta realizzando il pick-up Silverado senza il dispositivo elettronico che riduce i consumi dei motori. Una pausa temporanea. Secondo Deloitte, l’elettronica rappresenta oggi il 40 per cento del valore di un’auto.
La concorrenza del futuro si gioca a colpi di microchip.