vaccini cinesi
L'arrivo di vaccini cinesi all'aeroporto Ninoy Aquino di Manila, nelle Filippine, il 28 febbraio 2021 (Getty Images).
Inchieste

L’espansionismo cinese passa dai vaccini

Pechino porta il siero a chi non ha accesso ad altre immunizzazioni. Una strategia geopolitica del Dragone per affermarsi come potenza globale della salute. E non solo.


L'intero pianeta è a caccia di vaccini. Ma mentre l'Europa arranca, l'Italia inciampa e gli Stati Uniti puntano all'immunità del proprio gregge, c'è chi guarda oltre i confini nazionali, pronto a trasformare un problema in opportunità. Iniezione dopo iniezione, Pechino sta penetrando in molti dei Paesi lasciati soli davanti alla pandemia.

La chiamano «geopolitica dei vaccini»: usare il siero oggi più prezioso dell'oro per conquistare simpatie, influenze e alla fine possibilità di espansione. Lo fa la Russia, forte del suo Sputnik V ordinato da oltre 50 Paesi e autorizzato da 31, e lo fa l'India che al Serum Institute crea il Covishield e poi lo esporta alle popolazioni limitrofe per consolidare la sua immagine di potenza regionale. Ma soprattutto, dicevamo, lo fa la Cina.

E lo fa meglio degli altri perché «usa la diplomazia vaccinale per integrare il suo progetto di influenza globale» spiega Andrea Margelletti, presidente del Ce.S.I. Centro Studi Internazionali. «Dalla loro hanno che non sono una democrazia, dunque non subiscono controlli né elezioni che spezzano tessiture strategiche. Come dicono i militari: i dilettanti parlano di tattica, i professionisti di logistica». Il riferimento è all'immane progetto della Nuova via della seta e alla Via della seta della salute, il progetto per una cooperazione globale a tema sanitario lanciato nell'agosto 2017.

Una visione strategica grande quanto la pandemia. Nel giugno 2020 un «Libro bianco» presentato dal presidente Xi Jinping sottolineava come obiettivo di governo mondiale cinese sia lo sviluppare un «sistema di salute pubblica globale di cui beneficierà tutta l'umanità» con «un destino comune». Le fiale viaggiano di conseguenza.

I toni dei mezzi di informazione cinesi sono trionfali. «Abbiamo portato 43 milioni di dosi di vaccino Sinopharm nel mondo» gongola il Global Times, quotidiano in lingua inglese del Partito comunista, che racconta come in approvazione vi siano 16 vaccini di cui sei in fase 3 e 18 linee di produzione attivate per creare giorno e notte sieri contro il Covid-19. «Entro la fine del 2021 riusciremo a produrre due miliardi di dosi annuali, che diventeranno quattro per la fine del 2022» ha promesso Feng Duojia, presidente della China vaccine industry association, per poi compiacersi: «Quattro miliardi sono il 40% della domanda mondiale».

A oggi sarebbero due i suoi vaccini esportati in 20 Paesi e pronti a essere introdotti in altri 60: Sinopharm e Sinovac. Pochi dettagli sono trapelati per verificarne l'efficacia che, a detta dei loro creatori, raggiunge il 79% nel primo caso e il 50,4% nel secondo (l'Oms sta analizzando i dati, ma responsi non arriveranno prima di aprile). L'efficacia è dunque inferiore ad altri vaccini, ma c'è un vantaggio: possono essere conservati secondo normali standard di refrigerazione e dunque facili da trasportare anche in Paesi in via di sviluppo. Un terzo vaccino, CanSino Biologics, ha appena presentato domanda per l'approvazione dichiarando un'efficacia del 65,7%.

Ogni giorno si stringono accordi e ogni giorno gli aerei cargo con la bandiera rossa atterranno ai quattro angoli del mondo, e per ogni Paese è un'amicizia che nasce o si consolida, con tanto di leader - talvolta - pronti a farsene «testimonial» mostrandosi pubblicamente nel momento dell'inoculazione. Ci sono passati lo sceicco Mohammed bin Rashid al Maktoum, vicepresidente e primo ministro degli Emirati Arabi Uniti, il presidente indonesiano Joko Widodo e quello turco Recep Tayyip Erdogan, tra gli altri.

«Aiutando la classe dirigente a risolvere un problema di politica interna, te ne sarà grata perché fornisci uno strumento di normalizzazione: è Realpolitik allo stato puro» commenta Margelletti. «Se stai affogando accetterai un salvagente anche dal più acerrimo nemico, con il quale creerai un legame, è indiscutibile. Lanciare un salvagente è un gesto molto strategico».

Mai come in questo periodo il mondo ha avuto bisogno dello stesso rimedio vitale e nello stesso momento, ma l'Occidente non riesce a farsi carico di chi rimane indietro. Abbiamo visto i leader parlarne durante l'ultimo G7 e decidere di stanziare ulteriori fondi per il Covax, lo strumento di Oms, Unione europea e Francia per vaccinare i Paesi più poveri. Il collo di bottiglia delle produzioni però rimane. E gli occidentali danno la priorità a se stessi, mentre al resto del mondo non rimane che guardare a chi li può aiutare con dosi magari meno efficaci, ma certe, e a basso costo se non gratuite. In cambio, si presume, arriveranno gratitudine e accettazione del nuovo «soft power».

Il primo a ottenere un vaccino cinese è stato il Pakistan, forte alleato di Pechino in Asia. Nel continente non sono pochi i Paesi cui la Cina fa donazioni o vende a poco prezzo, dal Brunei al Myanmar, dalla Cambogia al Laos, e poi Sri Lanka, Indonesia e Mongolia. La Thailandia ha ordinato due milioni di Sinovac così come le Filippine, che hanno ricevuto domenica le prime 600.000 dosi, donate. In Nepal «piovono» vaccini sia cinesi sia indiani: da anni le due potenze sono in scontro, e hanno riversato milioni di dollari in aiuti e infrastrutture per permettersi di influenzare il piccolo Paese himalayano. Dalla Cina, Katmandu riceverà a breve 500.000 dosi Sinopharm, mentre dall'India ha avuto in dono un milione di Covishield e ne sta comprando altri due milioni a prezzo agevolato.

In America latina la generosità di Pechino dilaga, nonostante i malumori a stelle e strisce. «Gli Stati Uniti si stanno innervosendo perché vedono una normale cooperazione tra Paesi come una minaccia a quello che considerano il proprio giardino» scrive ancora il Global Times facendo un chiaro riferimento all'antica «dottrina Monroe» sulla supremazia statunitense sull'intero continente. Tra gli altri Paesi, Bolivia e Uruguay hanno appena ricevuto la prima spedizione di vaccini mentre Pfizer tarda ad arrivare, l'Argentina ha approvato l'uso emergenziale di Sinopharm di cui sta ricevendo il primo milione di dosi, e anche qui Pfizer ha rallentato per difficoltà di trasporto. Le temperature, sempre quelle.

Il Messico ha ottenuto i composti per 2 milioni di dosi CanSino e approvato l'uso emergenziale di Sinovac dopo che Pfizer, anche qui, ha mancato il suo appuntamento. Così il Perù, che va a ingrossare le fila di chi è rimasto in fondo alla lista di chi avrebbe dovuto ricevere abbastanza vaccini da proteggere la sua popolazione e ripartire (20 milioni di dosi Pfizer), e invece si è visto superare da Paesi più «vicini» agli Stati Uniti ed è costretto a intrecciare accordi con i cinesi: 38 milioni di Sinopharm.

Come ha recentemente scritto il Washington Post nell'articolo intitolato «Estromessi dalla corsa per i vaccini occidentali, i Paesi in via di sviluppo si rivolgono alla Cina»: «Per Pechino, che ha investito pesantemente in una regione vista dagli Stati Uniti come il proprio cortile, la diplomazia dei vaccini potrebbe essere una doppia vittoria: un modo per aprire nuovi mercati ai suoi prodotti farmacologici e un modo per costruire benevolenze in una regione dove da sempre vuole espandere la sua influenza».

La verità, però, è che questo è solo l'ultimo tassello di una strategia partita da lontano e che da anni vede la presenza cinese in Perù con forti coinvolgimenti nel settore minerario, energetico, nella pesca e nei trasporti marittimi. E lo stesso si può dire di molti altri Stati con cui il gigante asiatico si è intrecciato attraverso relazioni a ogni livello, talvolta fino ad assumere la forma di una dipendenza neocoloniale. Soprattutto in Africa, dove oggi certo non manca il volenteroso aiuto cinese. Anzi, come ha detto il ministro degli esteri Wang Yi «sarà una priorità».

L'aeroporto di Addis Abeba, in Etiopia, è pronto: Pechino vi ha creato un hub super tecnologico di 90.000 metri quadri con grandi celle frigorifere. I cargo atterrano e da lì i vaccini prendono o prenderanno il volo verso molti Paesi del continente. Dal Senegal allo Zimbabwe, dall'Algeria alla Guinea Equatoriale. Pechino fornisce fiale anche a Egitto e Iraq. Anche alle Seychelles, dove sono arrivati 50.000 vaccini cinesi, ma donati dagli Emirati Arabi. Le vie del «soft power» sono infinite.

Intanto nell'Europa dell'Est i Paesi tagliati fuori dai «giochi» rafforzano così il loro già avviato rapporto con la Cina. Tra gli altri la Serbia, dove il presidente Aleksandar Vucic (che a marzo aveva baciato la bandiera cinese ricevendo mascherine) ha ottenuto 1,5 milioni di dosi, l'Ungheria, che prevede di vaccinare 2,5 milioni di cittadini, e il Montenegro, con decine di migliaia di dosi in dono.
Con tanti vaccini per tutti, pare però che in Cina solo il 3% della popolazione vi abbia avuto accesso. Ma se sacrificio ci fosse, sarebbe per diventare guardiani della salute planetaria. Così va la Realpolitik.

«Anche il prossimo virus verrà dall’Asia»

Olsterholm

Il virologo Michael T. Olsterholm, sullo sfondo Wuhan dopo la fine del lockdown nel giugno 2020 (Getty Images).

«A un certo punto esploderà una pandemia diverse volte più grave del Covid-19. Molto probabilmente si tratterà di un nuovo virus influenzale, con lo stesso potenziale della Spagnola, che uccise tra 20 e 50 milioni di persone. Ma questa volta avverrà in un mondo in cui la popolazione è triplicata e gli spostamenti sono molto più frequenti». A prevederlo è Michael T. Osterholm, uno dei massimi virologi statunitensi, epidemiologo all'Università del Minnesota, nuovo membro della task force contro il Covid-19 dell'amministrazione Biden; insieme a Mark Olshaker, saggista e documentarista, ha scritto il libro Il peggior nemico, edito in Italia da Aboca, che sta scalando le classifiche dei libri più venduti negli Usa. Panorama l'ha intervistato.

Come è stata gestita secondo lei la pandemia negli Usa e, invece, in Europa?
«Per molti versi le risposte sono state simili. In entrambi i luoghi ci è voluto tempo per sviluppare piani nazionali e apprendere abbastanza per affrontare la pandemia. La maggior parte dei Paesi europei ha ora piani anti-Covid e, negli Stati Uniti, puntiamo su un solido programma per la vaccinazione di massa».

Nel libro lei e il coautore scrivete che l'Oms è un organismo che, così com'è, non funziona e non svolge il suo compito, mentre serve una sorta di Nato della salute. Nel concreto?
«L'Oms non riesce a entrare in azione in caso di emergenza. Serve piuttosto un'ente simile alla Nato che abbia risorse e capacità di intraprendere rapidamente un'azione coraggiosa. Che capisca che quando una nazione è minacciata, è una minaccia per tutti e, quindi, tutti devono reagire di concerto. Se un'organizzazione del genere esistesse, risorse, ricerca e personale potrebbero affrontare un pericolo infettivo appena emerge. Certo in un ente simile vorremmo vederi inclusi anche i principali attori internazionali come la Cina, così da segnalare subito rischi di questo tipo».

La prossima pandemia arriverà sempre dall'Estremo Oriente?
«Diciamo che ci sono ottime probabilità, per l'elevatissima densità di popolazione e dei tanti casi di esseri umani, animali da fattoria e uccelli domestici che vivono praticamente insieme: la perfetta "ciotola genetica" per mescolare i virus. Certo, poi potrebbe emergere ovunque. L'Hiv, il virus dell'Aids, per esempio veniva dall'Africa. L'influenza H1N1 del 2009 dal Messico e quella del 1918 probabilmente ha avuto origine nel Kansas. Ma è più facile che il salto di specie avvenga laddove gli habitat naturali sono minacciati».

È vero che più un virus è potente, meno è contagioso?
«Non è una regola. Il contagio ha più a che fare con il modo in cui viene trasmesso, per esempio attraverso la respirazione, uno dei veicoli più semplici per la sua diffusione, o il contatto con fluidi corporei, come Ebola. I coronavirus di Sars e Mers non erano meno contagiosi del Covid-19, però erano patogeni non altamente infettivi prima che il malato sviluppasse i sintomi. Una delle grandi sfide di Sars-CoV-2 è che può essere contagioso prima che gli infetti si sentano male: così il contagio passa ad altre persone che rischiano di ammalarsi gravemente o morire, a seconda dell'età o della condizione fisica».

Il virus della Sars oggi esiste ancora?
«Diciamo che la Sars può certamente diffondersi di nuovo, motivo per cui la sorveglianza è importante. Ma ci auguriamo che gli sforzi per vaccinare contro il Covid-19 in tutto il mondo stimolino lo sviluppo di antidoti anche per altri coronavirus. La Mers, per esempio, viene trasmessa dai cammelli, ed è un diverso tipo di sfida vaccinale».

A parte l'attuale pandemia, quello dei vaccini rappresenta un business per le aziende al pari dei farmaci?
«No, non tutti i vaccini possono essere redditizi. Faccio un esempio: nel 2014 il fatturato di Big Pharma è stato di circa mille miliardi, nello stesso anno i cinque principali produttori di vaccini hanno guadagnato 13,4 miliardi di dollari, poco più del 2% del fatturato globale. Per contro, un vaccino contro l'herpes zoster, come quello Merck, rende molto. Certo, ora la pandemia potrebbe cambiare le carte in tavola, dallo sforzo dell'industria farmaceutica sono emersi cinque-sei sieri anti-Covid in meno di un anno. Dove questo settore non è tanto remunerativo, è per le malattie con un numero limitato di casi, o che colpiscono principalmente le nazioni a basso reddito che non possono pagare la tariffa corrente. Ma se, come è successo, un'epidemia di Ebola si diffonde in Africa, è nell'interesse delle nazioni più ricche sovvenzionare sviluppo
e distribuzione dei vaccini».

Nel libro lei scrive che è fondamentale sconfiggere l'influenza. Ma in fondo non è un'infezione così temibile...
«Questa è una convinzione sbagliata. Sulla base di tutti i dati scientifici e storici, noi scienziati sappiamo che l'influenza pandemica rappresenta la più grave minaccia per la civiltà. E in un tale focolaio, gli attuali vaccini influenzali sarebbero in gran parte inefficaci. Ci vuole un gigantesco sforzo internazionale per sviluppare un antidoto universale per tutti i ceppi dell'influenza. Non importa il costo, sarebbe minimo rispetto all'effetto di un'altra pandemia sull'economia e il benessere del pianeta. Se non siamo preparati a un simile evento, cambierà la storia del futuro, così come la peste nera ha alterato la storia europea nel XIV secolo».

Molti temono che questi vaccini siano stati approvati troppo in fretta. Non potrebbero verificarsi effetti collaterali nel lungo termine?
«Sebbene siano stati prodotti in tempi record e quelli a mRna siano di nuovo tipo, disponiamo di parecchi dati risalenti a molti anni fa sul metodo dell'Rna messaggero. E abbiamo grande fiducia in questi prodotti. Di sicuro, in una somministrazione su scala planetaria emergeranno inevitabili effetti collaterali. Ma quelli gravi sono davvero rari e in quasi tutti i casi possono essere affrontati in modo relativamente semplice. La possibilità di ammalarsi per aver ricevuto il vaccino Covid-19 sono infinitesimali rispetto al rischio di contrarre il virus in modo serio e morirne. Bisogna fare buona informazione per convincere le persone che questi vaccini sono efficaci e sicuri. I dati dicono che oltre il 50% degli americani ancora oggi non si farebbe immunizzare».

È un grosso problema. Quanto sono pericolose le varianti?
«Ci preoccupano estremamente, motivo per cui è fondamentale contenere la pandemia il più rapidamente possibile prima che il virus abbia altre possibilità di mutare. I sieri attuali potranno essere modificati per gestire ceppi virali emergenti, ma potrebbero essere necessari alcuni mesi per aggiornare e approvare un vaccino contro una mutazione virale. Sarebbe devastante se gli ospedali, e in particolare le unità di terapia intensiva, fossero invasi da nuovi casi».

Vincenzo Caccioppoli

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