Antonio Canova
La mostra «Antonio Canova e la scultura contemporanea» al Museo Gypsotheca Antonio Canova.
Inchieste

Canova: storia delle stele divise e ricongiunte

A Possagno, nel museo di Antonio Canova, sono esposti i marmi celebrativi dello scultore trevigiano e dell’allievo Giuseppe De Fabris. In origine si trovavano nella villa Gernetto di Lesmo, in Brianza, poi furono rimosse da lì. Ora, in un grande dialogo dell’arte, vengono riunite.


Non sembra possibile né lecito che uno dei monumenti più importanti, e certamente la più significativa opera di Antonio Canova in Lombardia, le stele della cappella di villa Mellerio al Gernetto di Lesmo, sia stato barbaramente smontato staccando traumaticamente le lastre marmoree che foderavano le pareti della piccola e armoniosa architettura. Oggi quello spazio spoglio e rigenerato non ha più tracce delle sculture, disperse e allontanate dalla sede originale.

Private delle basi rettangolari iscritte e dei frontoncini che le chiudevano in alto (documentati soltanto da alcune fotografie antecedenti alla rimozione, dalle incisioni di Fontana e dalle vecchie fotografie dei due modelli di gesso di Possagno), le stele riapparvero a Palermo nel 1978, con la richiesta di libera esportazione in Germania. Fu Vincenzo Scuderi, soprintendente alle Belle arti, a negare l’autorizzazione e a proporne l’acquisto coattivo da parte della Regione Sicilia.

Con un allestimento armonioso, ma provvisorio, furono esposte a palazzo Mirto a Palermo, dove le vidi la prima volta negli anni Ottanta, mentre oggi fanno parte delle Raccolte Lapidee di palazzo Ajutamicristo, sede della Soprintendenza del capoluogo siciliano. A testimoniare la loro sistemazione originaria nella cappella di villa Mellerio restano alcune fotografie della fototeca Zeri e quelle pubblicate da Vittorio Malamani nella storica monografia del 1911.

Analogo destino a quello delle stele canoviane toccò al rilievo in due parti che Giacomo Mellerio commissionò allo scultore bassanese Giuseppe De Fabris, suo artista prediletto, e allievo diligente e intenso di Canova, per commemorare l’ultima dei suoi figli, Giovannina, anch’essa perduta prematuramente nel 1822, ad appena 17 anni. Terminato nel 1824, inviato da Roma a Lesmo nel 1825, d’ispirazione neorinascimentale, il monumento di De Fabris si componeva di due parti: quella ad alto rilievo con il corpo giacente di Giovannina sopra un’urna nella parte inferiore, distesa come una novella Ilaria del Carretto - e la lastra a bassorilievo con Elisabetta Castelbarco Mellerio e i suoi tre bambini, per i quali la madre chiede alla Vergine di intercedere presso Gesù.

Atrocemente resecate e asportate dal mausoleo di villa Mellerio, le parti del rilievo di De Fabris furono separate, per destini diversi, fra loro e dalle stele di Canova. In questa occasione sono stati ricomposti il bassorilievo e la scultura sagomata di Giovannina Mellerio giacente. Il risultato è straordinario. È un risarcimento che dovrebbe, in filo di logica e rispetto della legge, essere stabilmente riproposto, dopo l’abusivo sconvolgimento, nella sede originale, tuttora esistente e restaurata dall’ attuale proprietario.

La violenza e l’insensatezza dell’operazione ha tolto significato all’impresa celebrativa voluta, con tanta determinazione e consapevolezza estetica, affiancando a Canova il De Fabris, che accettò l’impossibile gara, mantenendo l’ordine e il rigore del maestro per una realizzazione che mostrasse uno spirito unitario. I due artisti perseguono una trasposizione del dolore in una visione pacificata.

La donna abbracciata all’urna (che si ritrova con analoga modalità, come il cippo con il busto, in Gaspare Landi) rimanda al culto dei morti evocato, negli stessi anni, da Ugo Foscolo nei Sepolcri: «Celeste è questa /corrispondenza d’amorosi sensi, / celeste dote è negli umani; e spesso / per lei si vive con l’amico estinto / e l’estinto con noi».

Canova lavorò al tema proposto tra il 1812 e il 1814 e, nell’agosto di quell’anno inviò le sculture a Lesmo. Così, foscolianamente, le interpretò: le due donne in piedi che piangono nelle due stele di Elisabetta Castelbarco e Giovanni Battista Mellerio sono personificazioni della Pietas, come si intende dalle iscrizioni (Pietas in quella di Giovanni Battista; Pietas Mariti in quella di Elisabetta). Nella stele funeraria di Giovanni Battista, la dolente stringe l’urna con le ceneri del defunto; in quella di Elisabetta abbraccia il busto della giovane prematuramente scomparsa, interpretando il tema della conversazione funebre proprio della letteratura sepolcrale europea.

Una creazione alta e nobile, centrale nell’arte di inizio secolo. Immaginate ora se, in una buona guida italiana moderna, della Lombardia, la Guida rossa del Touring, per esempio, nella edizione del 1972, solo 50 anni fa, aveste trovato come dato certo e reale l’indicazione della cappella Mellerio con i rilievi di Canova, consultandola e ottenendo la possibilità di visitarla: con quale stupore l’avreste trovata spoglia e priva di ogni traccia dei rilievi canoviani! Disperatamente e illegalmente dispersi. Oggi sono, con qualche danno, ritrovati e ricomposti, a fianco dei gessi, nella sede ideale, estensione emotiva dello studio di Roma, contigua alla casa dello scultore, a Possagno, nel museo Gypsoteca Canova.

Per legge non erano rimovibili. Anche senza vincoli diretti, la loro condizione, in un edificio storico monumentale, certamente notificato, è di beni «immobili per destinazione», alienati non per ragioni di necessità o di emergenza, in tempi troppo vicini per non richiedere un intervento risarcitorio, di fatto, stabilendo un accordo fra la nuova proprietà e lo Stato, con compensazioni alla Regione Sicilia e ai privati attualmente detentori delle opere. Il percorso è chiaro.

Su Wikipedia oggi si legge, come un destino ineluttabile ma con perfetta consapevolezza dell’importanza storica del compendio, anche per ragioni relative allo status del luogo: «La Villa Gernetto fu più tra le più celebrate dell’inizio del 1800 e tra le più ambite per i fastosi ricevimenti dati dal conte Giacomo Mellerio vicepresidente del Governo del Lombardo-Veneto nel 1816. In quel tempo la Villa doveva risultare molto ricca anche negli interni, sia nell’arredamento che nelle decorazioni, come è attestato dalla presenza in quel periodo nella cappella privata di due bassorilievi funebri scolpiti dal Canova, nonché delle altre opere scultoree del Fabris.
Nel 1975 il complesso fu acquistato dal Credito Italiano che lo trasformò in un centro di formazione per il suo personale annettendo alla villa anche il vecchio complesso di stalle e fienili adiacente. In seguito la proprietà divenne Pirelli & C. Real Estate. Nel 2007 fu acquistata dalla società Fininvest Sviluppi Immobiliari S.p.A. di Silvio Berlusconi che nell’aprile del 2008 diede il via ai lavori di restauro a opera dello studio di architettura Studio Magnano & Partners di Macherio».

Come pensare che una architettura di tale importanza, al di là degli arredi, non fosse vincolata? E, si badi bene, le sculture di Canova e De Fabris non erano arredi, ovvero beni mobili, ma parti integranti e destinate alla coeva architettura della cappella. Previste nel progetto in quello spazio. Contestuali e coeve: dunque inseparabili dall’architettura. Tecnicamente, a barbara violenza della rimozione contraddice la condizione di «beni immobili per destinazione», sopra ricordata. Così essa è definita nel Codice per i beni culturali, all’articolo 11: «È vietato, senza l’autorizzazione del soprintendente, disporre ed eseguire il distacco di affreschi, stemmi, graffiti, lapidi, iscrizioni, tabernacoli e altri elementi decorativi di edifici, esposti o non alla pubblica vista (art. 50, co. 1), nonché il distacco di stemmi, graffiti, lapidi, iscrizioni, tabernacoli e la rimozione di cippi e monumenti...». Questa norma impone, al di là delle responsabilità penali, il ripristino di ciò che è stato, a danno del monumento, comunque alterato, rimosso e manomesso.

Altra è la villa il Gernetto, con la sua storia, senza il mausoleo Mellerio. Canova ne è la consacrazione. E attribuisce senso all’architettura nel dialogo con la scultura, con un peculiare valore estetico e storico. Una tappa fondamentale dell’evoluzione dei monumenti funerari dal Rinascimento al Neoclassico. Le stele Mellerio sono storia, e non hanno senso a Palermo.

Nella sua ricognizione delle stele di Canova, tra il 1792 e il 1815, Francesco Leone, autore della nuova monografia per Officina editoriale, scrive: «Se si esclude la figura dell’Italia piangente della Gessner, iniziata nel 1804, rimasta allo stadio del modello in gesso e poi abbandonata in favore del monumento a tutto tondo che sarebbe stato inaugurato nel 1810... le due stele Mellerio sono le uniche in cui la figura dolente compare in piedi». Con esse il rinnovamento della rappresentazione sepolcrale è compiuto. La festa dell’arte è certa. E il tempio canoviano di Lesmo, oggi ricostituito a Possagno, è «amori ac dolori sacrum».

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Vittorio Sgarbi