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Analisi etnografiche senza senso sugli hacker

La Rubrica - Cybersecurity Week

Nel mio curiosare in rete sono inciampato in un articolo in cui appariva questa frase “È per questa ragione che il presente lavoro ha lo scopo di trattare, quanto più esaustivamente possibile, una vera e propria comunità deviante in rete: il mondo hacker, come esempio di analisi etnografica applicata al virtuale. Questo universo, per molti versi a sé stante, risponde ad una vera e propria etica con un codice ‘non scritto’ di principi, regole e valori attorno alla quale ruota e si fonda l’intera comunità hacker che prende vita dall’attività illegale di singoli hacker e di hack crew” Così sono stato colto da improvviso entusiasmo, ma cercherò di essere breve. Partiamo dalla prima dichiarazione degna di nota: gli hacker come comunità deviante.

La “deviazione” definisce quanto si discosta dalle regole comunemente accettate. Affermarlo significa avere colto un aspetto significativo. L’approccio di fondo dell’hacking mira a saziare una curiosità e una passione rispetto alle quali molti dei valori tradizionali della nostra cultura occidentale sono superati e le conseguenze dell’agire in tal senso sono considerate irrilevanti. Premesso che ogni individuo tende a considerare il luogo virtuale rappresentato dalle memorie del proprio computer un suo “domicilio elettronico”, nell’accettare che la violazione di un sistema informatico sia un’azione ammissibile si pongono di fatto dei nuovi paletti culturali che rimuovono il concetto di proprietà privata.

Quale reazione potremmo avere se rientrando a casa trovassimo uno sconosciuto che scartabella nella nostra libreria? Difficilmente gli chiederemmo se vuole in prestito qualche libro e sapere che non ha fatto danni sarebbe soltanto una parziale consolazione. Eppure, la potente molla rappresentata dalla “ricerca” funge anche da ammortizzatore etico. Nonostante questo, la comunità hacker è in prima fila nella lotta per la tutela della privacy in Internet. Una contraddizione? Non proprio, perché non è la violazione del sistema informatico ad essere esecrabile, anzi, richiedendo a volte significative competenze, può acquisire la definizione di hack, bensì la finalità può essere malvagia. In tal modo un ventenne che “sfoglia” di nascosto l’hard disk di un ignaro utente è un semplice “esploratore” che soddisfa la propria curiosità, mentre la stessa attività svolta da Microsoft per scoprire se quello stesso utente si è abusivamente installato Windows diventa una violazione della privacy.

Tutto discutibile, ma non esecrabile in assoluto. La seconda frase che mi ha interessato è relativa all’idea di analisi etnografica, che implicherebbe presumo almeno una ricerca etnografica preliminare che De Sardan articola in quattro attività principali: osservazione partecipante, colloquio, procedure di censimento, raccolta di fonti scritte. Già questo sarebbe obiettivo ambizioso, l’analisi ancora di più, ma daremo tempo al tempo. Terza affermazione che mi ha colpito riguarda l’etica con un codice non scritto. A tal proposito suggerirei all’autore di visionare questo link https://www.catb.org/jargon/html/ e successivamente di leggere “L'etica hacker e lo spirito dell'età dell'informazione” di Pekka Himanen e se ha tempo anche “Un manifesto hacker” di Wark McKenzie. Questo tanto per iniziare, perché i codici scritti certo non mancano. Infine, ciliegina sulla torta,” la comunità hacker che prende vita dall’attività illegale”. Personalmente non combatto battaglie di retroguardia cercando di ricollocare il termine hacker in quello che era il suo significato originale, ma esigo che, se si pretende di “trattare quanto più esaustivamente possibile” e di svolgere un’analisi etnografica con pretese scientifiche, almeno si abbia un’idea di cosa si sta parlando e della storia di quanto si aspira a studiare.

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Alessandro Curioni