Josefa Idem, grazie di tutto!!
Chiude 5^, ad un soffio dal podio, una carriera che è un inno allo sport
Danuta Kozak è nata a Budapest l’11 gennaio del 1987. In quei giorni, Josefa Idem, ventitreenne canoista tedesca, teneva appesa nel soggiorno la medaglia di bronzo vinta alle Olimpiadi di Los Angeles ’84 e aveva nel mirino la sua seconda partecipazione ai mondiali con il K1. Non benissimo nel Mondiale dell’’85, per lei che arrivava dalla remata in coppia del K2. Lo sappiamo, è quanto di più banale insistere sull’età. Ma 25 anni, otto Olimpiadi e altre quattro medaglie dopo al collo di Josefa, Danuta alza la pagaia verso il cielo bello di Londra: salirà sul podio, ascolterà l’inno, le infileranno la medaglia d’oro.
Josefa Idem scende dalla sua canoa, infila invece il sorriso più dolce che le resta, nell’amarezza che rimane dentro a una campionessa vera dopo un quinto posto, e dice, tra le altre cose: “Voglio ringraziare mio marito che mi ha portata a queste Olimpiadi in forma, fino a un passo dal podio nella mia ultima gara”.
Si possono dire e scrivere tante delle cose che vengono in mente, in un momento di malinconia bella. La prima è che anche nello sport esistono uguali e contrari. Il pensiero va alle vasche dove hanno nuotato Federica Pellegrini e Filippo Magnini che sono diventate rosse di metaforico sangue dopo tanti morsi di squali ormai un po’ sdentati e molto incattiviti. Poi corre verso Alex Schwazer che ha cominciato dopo una sola meravigliosa Olimpiade e con il peso per lui insopportabile dell’oro al collo, a detestare ogni passo di marcia, ogni stilla di sudore versata su quella via sempre più simile a un silenzioso calvario, fino ad inchiodarsi alla croce della vergogna.
Per Josefa, invece e al contrario, quei 500 metri d’acqua sono stati amore puro, da condividere, crediamo anche con armoniosa fatica, con una famiglia da cartolina. Non ci piace mai versare troppo zucchero su chi fa sport per mestiere: chiamatela pure allergia alla demagogia o paura del diabete. La Idem però, con quel suo viso solare e antico, è entrata nella storia non solo dello sport, ma delle nostre vite, almeno di chi lo sport lo segue e lo vive un poco. Perché ci ha accompagnato per tanti anni e non è necessario andare a ripescare Nick Hornby che scandiva la sua esistenza e catalogava i ricordi sull’andamento dell’Arsenal. Josefa Idem era lì che ci aspettava Olimpiade dopo Olimpiade.
Ci siamo magari alzati di notte o svegliati la mattina presto per guardarla versare la sua potenza, la sua volontà, appunto il suo amore su quei 500 metri nelle diverse acque del Mondo. Restano quadri e ricordi. Compreso questo dipinto di fresco: nessuno di noi ha sentito il morso della delusione contando quel quinto posto e quei tre dannati decimi dal podio. Semmai ammirazione che non scorrerà via con l’acqua, ma ora che è finita una carriera agonistica, vorremmo tanto ritrovare nella vita dello sport. Josefa ha tante idee sul suo futuro. Ma sarebbe bello volesse portare la sua bandiera nelle stanze dei bottoni del Coni, piene di polvere e di spazzatura. Ci piacerebbe non abbandonasse quella prima linea del fronte che per trentacinque anni ha spezzato a colpi di pagaia. La battaglia sarebbe ancora più difficile, ma ne abbiamo un dannato bisogno.