Io, Mentana, volevo essere un maratoneta
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Io, Mentana, volevo essere un maratoneta

Infilarsi nel letto, chiudere gli occhi e sognare di tagliare il traguardo olimpico per primo. Poi arrivò Stefano Baldini con il suo oro al collo ed Enrico Mentana quel sogno non l’ha più fatto. Qui l’anchorman rivede le imprese che hanno segnato la storia olimpica. E la sua vita.

di Enrico Mentana

Per tanto tempo mi sono addormentato sognando di correre la maratona olimpica, e di vincerla. Realizzai che non era una forma così rara di follia solo quando vidi, in un vecchio filmato, il grande poeta Eugenio Montale confessare lo stesso sogno impudico. Anche uno scrittore che ho molto amato, Manlio Cancogni, in un’intervista recente raccontava l’identica fantasia. E chissà quanti altri hanno condiviso quel sogno. Ho capito che non lo avrei mai più fatto, e così è stato, nel momento in cui vidi Stefano Baldini entrare da trionfatore nello stadio di Atene, ricostruito apposta nello stile classico per celebrare il ritorno della maratona olimpica nella sua sede naturale, sullo stesso percorso tra la città da cui prende nome e la capitale greca che Fidippide percorse di corsa per annunciare la vittoria dell’esercito di Milziade sui persiani. Dopo 25 secoli, nella serata di chiusura dei Giochi 2004, quell’itinerario mitico si era fatto una bellissima realtà per noi italiani. In quell’oro olimpico, il più prezioso, perché fatto della materia di cui son fatti i sogni, si specchiano tutte le imprese della maratona, da quella mitica e fissata da pochi fotogrammi sgranati, di Dorando Pietri, caduto sul traguardo di Londra 1908 e poi premiato dalla regina, all’altra, selvaggia e meravigliosa, di Abebe Bikila, trionfatore scalzo nella notte di Roma 1960: il momento cruciale dell’Olimpiade italiana, uno sconosciuto etiope che dopo una cavalcata per le meraviglie della città antica illuminate a giorno andava a vincere proprio sul viale che Mussolini aveva voluto per consacrare l’impero dopo la guerra d’Etiopia.

E poi la sfida infernale di Seul 1988: l’essenza stessa di una corsa come la maratona, che entra nel vivo dopo un’ora e mezzo, quando il serbatoio delle energie va in riserva, e allora compete chi ha cuore e testa. L’italiano Gelindo Bordin va in testa con due atleti africani, uno di Gibuti e un keniano. I due scattano a 5 chilometri dall’arrivo, e Bordin si lascia sfilare, per non seguire il loro ritmo proibitivo. Poi piano piano riduce le distanze, si avvicina sempre di più, prima al campione del Kenya, che riprende e sorpassa al 40° chilometro, poi due minuti dopo agguanta l’altro, che è entrato in panico e si volta di continuo. Mancano 1.500 metri all’arrivo quando Bordin va in testa alla gara, sicuro e sorridente fino al traguardo. Chi ha seguito quel finale, nel primo mattino italiano, non potrà dimenticarlo. Perché i Giochi sono questo, emozioni pure e fortissime, voci concitate dei telecronisti, imprese di atleti che magari fino a quel giorno neppure conoscevamo, ma subito diventano parte della nostra memoria. Soprattutto nell’atletica.

La retorica la vuole come «la regina delle Olimpiadi», e non c’è nulla che faccia danni come la melassa delle frasi fatte applicata allo sport. Però è vero che se penso all’edizione più straordinaria, quella di Messico 1968, tutti i ricordi forti che ho (al di fuori di quello extrasportivo del massacro degli studenti in piazza delle Tre Culture, che poi sarà fissato in uno straordinario reportage da Oriana Fallaci) hanno come sfondo proprio le piste e le pedane dell’atletica: a cominciare dai due salti che entrarono definitivamente nella storia dello sport, il fantascientifico 8,90 di Bob Beamon nel lungo (per capirci, più di mezzo metro oltre il record mondiale precedente, e solo 5 centimetri in meno del record di oggi, 44 anni dopo), e il 2,24 che valse la vittoria nell’alto allo sconosciuto Richard Fosbury. Una misura di per sé non eccezionale; eppure quel salto vale per l’atletica come il passaggio dal muto al sonoro nel cinema. Fino a quel giorno di ottobre del 1968 i campioni avevano usato il salto a forbice o lo scavalcamento ventrale. Fosbury sbalordì tutti, avversari e pubblico, ma soprattutto noi telespettatori di tutto il mondo, saltando di schiena, le spalle voltate all’asticella: è come se uno sprinter si fosse messo a correre all’indietro, battendo tutti. Nell’alto c’è un prima e un dopo quel salto di Città del Messico. A un anno da quell’impresa tutti i saltatori del mondo utilizzavano il nuovo stile.

Ma di Messico 1968 mi resta impressa, come succede a chiunque altro l’abbia vista in diretta, un’immagine sopra a tutte, che in un attimo fece esplodere la bolla virtuale in cui si tentava di rinchiudere lo sport in quell’anno convulso di contestazione, di rivolte, di guerre: è quella dei due atleti americani Tommie Smith e John Carlos sul podio della premiazione dei 200 metri, il braccio alzato e il pugno chiuso guantato di nero, a salutare col simbolo del Black power l’inno del loro paese. Il vento della protesta soffiava per la prima volta anche dentro il tempio dello sport. Le Olimpiadi non erano più fuori dal mondo, e quattro anni dopo sarebbe stato purtroppo ben chiaro a tutti.

Il ricordo più nitido che ho dei fatti che macchiarono i Giochi del 1972 è quella cerimonia funebre tesa e raggelante nell’Olympiastadion di Monaco, che poi voleva dire: sì, dei guerriglieri palestinesi hanno rapito nove atleti israeliani, li hanno uccisi, il blitz delle teste di cuoio è fallito, noi ora li  commemoriamo, ma poi domani riprendiamo le gare. La telecronaca di Paolo Valenti traduceva per noi telespettatori quel misto di lutto di maniera e di impazienza per lo spettacolo sportivo che doveva riprendere il centro della scena.

I Giochi erano tornati in Germania 27 anni dopo la fine della guerra e 36 dopo l’edizione di Berlino, quella in cui l’americano nero Jesse Owens trionfò nei 100 e nel lungo davanti a un Adolf Hitler anche lui nero, ma di rabbia. Tutto si voleva, meno che altre divisioni. Ma questo, proprio questo, successe. Quarant’anni fa i villaggi olimpici erano ancora come le colonie estive dei bambini, senza chiavi né divisioni, a simboleggiare la fratellanza tra gli atleti di ogni colore e provenienza. Farci entrare il terrore fu perfino troppo semplice, mentre noi dall’Italia ci baloccavamo sulle prove di trasmissione a colori, o scoprivamo sul podio alcuni nostri giovani campioni, come Pietro Mennea e Novella Calligaris. Le Olimpiadi avevano perso l’innocenza, quella notte di settembre a Monaco, e non l’avrebbero più riconquistata. Anzi: l’ultima stagione della contrapposizione Usa-Urss avrebbe condotto ai boicottaggi reciproci (Mosca 1980 e Los Angeles 1984), e il crollo del comunismo si sarebbe portato via negli anni Novanta la finzione dei dilettanti di stato.

Di lì in poi i Giochi furono un’altra cosa: sinceramente però le Olimpiadi arricchite dalla presenza dei professionisti mi hanno regalato ben poche gemme (una di inestimabile valore, il Dream Team Usa di basket a Barcellona 1992, con Magic Johnson, Michael Jordan e Larry Bird insieme) e tanta perdita di fascino, i Giochi che sembravano un doppione dei vari campionati mondiali e non più quell’unicum pieno di sorprese e scoperte. Ma non poteva continuare a essere come prima, quando ogni quattro anni ti ricordavi che c’era un Klaus Dibiasi nei tuffi, e lo vedevi vincere l’oro per tre edizioni di fila, e tutte le volte un po’ ti esaltavi e un po’ ti vergognavi per averlo dimenticato tra un’Olimpiade e l’altra.

Ora i Giochi sono diventati una gigantesca manifestazione non solo sportiva, in cui gli altri interessi spuntano fuori apertamente. Come per l’edizione del 1996, assegnata ad Atlanta per un solo motivo reale: che quella città è la patria della Coca-Cola, da sempre principale sponsor olimpico. E forse non a caso quella fu l’Olimpiade più brutta. Anche se porta con sé un ricordo davvero emozionante, un brivido che ogni amante dello sport conserva, del momento culminante della cerimonia di apertura, quando il penultimo tedoforo, una ragazza, consegna la fiaccola a colui che andrà ad accendere il braciere olimpico. Per tradizione l’ultimo tedoforo è un atleta che richiama la classicità anacronistica di quel gesto, giovane e prestante. Ma lì ad Atlanta il suo nome è rimasto segreto fino al momento del passaggio della torcia, che improvvisamente ne illumina il volto: è un uomo gonfio in viso, scosso dai tremiti della malattia, incerto sulle gambe. Ma tra tutti noi appassionati che vediamo quelle immagini da ogni parte del mondo non c’è chi non lo riconosca: è Cassius Clay-Muhammad Ali, il più grande pugile di tutti i tempi, leggenda sportiva ormai rinchiusa in un corpo piagato dal Parkinson. Lui, che le Olimpiadi le aveva vinte a 18 anni, a Roma nei medio-massimi. In un tempo senza più eroi, teniamoci strette le figure dei campioni per riconoscimento collettivo, sperando di incontrarne altri negli attesissimi Giochi di Londra 2012, così forti da contrastare perfino la nostalgia di noi ex maratoneti onirici.

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