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16 maggio 1976: ricordando lo scudetto del Torino, 40 anni dopo

La squadra di Gigi Radice rivoluzionò il nostro calcio con il suo gioco offensivista e olandese. Iniziando al tifo una generazione di italiani

Per chi è nato tra fine degli anni 60 e i primi anni 70, fu relativamente semplice diventare tifosi del Torino. Quel Toro, allenato da Gigi Radice e presieduto da quel galantuomo di Orfeo Pianelli, era veramente una squadra di un altro pianeta.

C'erano Eraldo Pecci, Renato Zaccarelli e Patrizio Sala a centrocampo, Paolino Pulici e Ciccio Graziani in avanti, il mitico giaguaro Castellini tra i pali, l'imprendibile Claudio Sala sulla fascia destra. C'era una squadra giovane che giocava a pallone, che si divertiva e che divertiva il pubblico, la prima, in Italia,  quindici anni prima del Milan stellare di quell'altro geniacco di Arrigo Sacchi, che praticava un calcio rivoluzionario e  olandese, in un'Italia fino ad allora abituata a un football difensivista di cui il maestro era stato qualche anno prima il grande Nereo Rocco. E c'era, infine, il Fildelfia, scuola di calcio e di vita dove andavano ad allenarsi i mostri sacri della prima squadra e i giovani della Primavera potevano solo imparare.

Quella squadra, la sola che ci abbia regalato uno scudetto dopo la tragedia di Superga, è stato per noi granata l'ultimo Toro che abbiamo l'orgoglio di ricordare, fatte salve le fugaci parentesi del club di Beppe Dossena e Leovigildo Junior a metà anni 80 e il canto del cigno del Torino dove militavano Gianluigi Lentini, Vincenzino Scifo e Rafael Martin Vazquez. Era l'inizio degli anni 90, il principio della nostra discesa agli inferi, l'apogeo di Amsterdam, la sedia al cielo di Mondonico, il palo di Sordo all'ultimo secondo, gli dei che per l'ennesima volta - dopo Superga, dopo Meroni - si rivoltavano contro noi sopravvissuti.

Tifare Toro non fu, per chi come il sottoscritto si affacciava all'età scolare, un atto eroico come lo sarebbe stato per i bambini che diventarono granata negli anni 90 quando le vicissitudini societarie  ci portarono a fare la spola per quasi un ventennio tra la serie A e la serie B. Per i bambini che non erano nati e non vivevano a Torino, per i quali tifare granata è ancora oggi come per miracolo una inscalfibile tradizione cittadina, indossare la maglia di Ferrante quando noi, al parco, indossavamo quella di Pulici era quello sì un gesto eroico, vagamente dadaista. Era un imparare sin dall'infanzia il gusto di essere dalla parte del torto, di non seguire la corrente che porta inesorabilmente alla gioia diminuita di stare con quelli, a strisce, che vincono sempre, fino a che non ti tolgono il gusto della vittoria. È a loro, i bambini che sono rimasti del Toro, che penso, pensando a quella squadra.

Perché ricordare quel Toro, quel Toro che solo l'anno dopo il settimo scudetto fece cinquanta punti su sessanta, significa anche riscattare la memoria di quelli che sono arrivati fin qui, resistendo, passando per Fattori, Maltagliati, Fantini e Osmanowsky, e gioendo infine per le piccole e transitorie gioie del San Mames e dell'ultimo derby del 2-1 di due anni fa. Non ci siamo abituati ai piani alti, siamo sempre quelli di un tempo, quelli che vincono uno scudetto o vincono qualcosa una volta ogni morte di papa. Anzi di tre papi: Paolo VI, Albino Luciani e Giovanni Paolo II. Quello è il Toro e continuare a tifarlo - o ricordarlo - è rimasto, nonostante tutto, l'ultimo grande privilegio che ci è rimasto. Il resto è un oggi gravido di incertezze, dove sembriamo destinati a crescere e allevare talenti destinati inevitabilmente alle grandi squadre.

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Paolo Papi