Giovani occidentali a orologeria
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Giovani occidentali a orologeria

In un video virale, due giovani imbottiti di farmaci, si schiantano e muoiono. Cosa spinge i giovani a comportamenti così autodistruttivi?

Circola, in questi giorni, sui siti di vari giornali e sui social network, un video in cui sono ripresi gli ultimi istanti di vita di due ragazzi che guidano all’impazzata dopo aver assunto un cocktail di farmaci.

La vettura si schianta contro il muro di una chiesa, i ragazzi muoiono sul colpo.

Le immagini sono state diffuse con il benestare dei genitori, allo scopo di scoraggiare altri giovani da compiere bravate simili a quella costata la vita ai loro figli.

Già, bravate, perché a questo pensiamo appena vediamo il video: ma dove avevano il cervello?

Ogni adolescenza coincide con la guerra

C’è un verso di una canzone dei Tre allegri ragazzi morti che ascoltavo da ragazzino: “Ogni adolescenza coincide con la guerra”. Guerra falsa, guerra vera, nella testa degli adolescenti è la stessa cosa.

Si sentono in guerra contro il mondo, si sentono in guerra contro loro stessi.

E l’adolescenza, oggi, nei Paesi occidentali, è una fase della vita decisamente lunga. E non solo perché siamo tutti, più o meno, mammoni, bamboccioni, viziati, puerili.

Ma anche perché ci sentiamo imprigionati in una condizione incerta, in cui non siamo né carne, né pesce. E questo non solo negli anni di quello che, dalle mie parti, a Genova, chiamiamo “belinismo adolescenziale”, ma anche molto più in là, anche a 20, 30, 40 anni.

Il bisogno di qualcosa di netto, di esperienze forti, di impattare contro limiti che ci sentiamo in dovere di tastare con mano, è qualcosa che riguarda nel profondo la natura umana, il cui prototipo, in qualche modo, è l’Ulisse immaginato da Dante nella Divina Commedia, che una volta tornato a casa riparte verso l'ignoto.

Ma quali limiti cerchiamo di infrangere? In che forme proviamo a valicarli?

L’equivoco del “voi” e dell’”io”

Qualche giorno fa ero a un festival, invitato a intervenire a una tavola rotonda sulla libertà d’espressione. Tra i partecipanti, una giovane inviata di guerra,diceva cose decisamente interessanti. Alcune, anche se controverse (come il mettere in discussione la libertà rappresentata dalle vignette di Charlie Hebdo, che per tutta una parte di mondo, a suo avviso, erano legittimamente inaccettabili, quindi, più che libere, semplicemente offensive), offrivano diversi spunti di riflessione.

Ma i suoi argomenti erano resi irricevibili da una presunzione assoluta: “IO vivo a Baghdad, IO vivo in posti dove esplode qualcosa ogni giorno, IO faccio un lavoro che nessuno vuole fare, VOI, dai vostri divani, non potete capire”.

Quel “voi”, ripetuto a mitraglia in ognuno dei suoi numerosi ed enfatici interventi, aveva un duplice scopo: fare brand di se stessa (Ecco la martire di cui comprare i libri per ripagare il suo martirio) - comprensibile debolezza umana - e smontare uno stereotipo (gli islamici sono tutti fanatici terroristi) contrapponendogli un altro stereotipo (per gli occidentali esiste solo il loro mondo, che nella loro testa è il migliore dei mondi possibili).

In soldoni: qua stiamo tutti bene, non possiamo capire le ragioni di chi sta male.

Come sappiamo, sono numericamente piuttosto rilevanti, invece, i giovani occidentali (nati e cresciuti in Europa), che nonostante “stiano bene” si arruolano per combattere sotto le bandiere dell’Isis.

Altri, e sono anche questi molti, partono per dedicarsi a un volontariato che di umanitario ha spesso ben poco, ma che anzi, è rivelatore di manie di protagonismo e di avventurismo piuttosto allarmanti.

Mangiare fino a scoppiare, vomitare anche l’anima per non ingrassare, alzarsi sempre a pomeriggio inoltrato (ma anche gettare sassi da cavalcavia, perseguitare disabili, o - come avviene tragicamente spesso negli Usa - aprire il fuoco su coetanei innocenti) sono diverse facce della stessa disperazione identitaria.

Chi siamo?

Difficile non metterle in relazione i nostri comportamenti autodistruttivi con i gesti estremi ma pieni di convinzioni e desideri di conquista, ad esempio, dei giovani dell’Isis.

Cosa è peggio? Cosa è meglio per una società?

Non siamo niente

Il punto è che i giovani occidentali, oggi - e mi metto nel mezzo - non hanno prospettive. E non si tratta solo di una questione economica (che pure è probabilmente la più rilevante).

Il problema è che non abbiamo valori in cui credere, non abbiamo battaglie da combattere che ci appartengano, e nemmeno qualche forma di stabilità che ci renda, quantomeno, quieti come dei piccoli Fonzie.

Guardiamoci in faccia: non siamo quelli che hanno un Paese da ricostruire, non siamo quelli che possiedono i valori della famiglia, dei figli, della religione, del decoro da cui sentirsi soggiogati e guidati, non siamo quei consumatori acritici e forsennati, interpreti gaudenti di uno yuppismo pieno di stimoli, non siamo quelli che pensano di poter trovare un posto fisso alla Fantozzi, mettere su una casetta, fare piccoli passi carichi di frustrazione ma anche di prevedibilità, non siamo quelli costretti a rifugiarsi sui monti per cacciare invasori e dittatori.

Io, personalmente, sono un privilegiato. Nonostante la precarietà (lavorativa, abitativa, etc) in cui vivo, vivo comunque di quel che più amo, la scrittura. Faccio, in anni bui, quel che sognavo di fare da bambino, ed è molto più di quanto avrei mai potuto sperare di ottenere negli anni buissimi dell’adolescenza.

E anche se ho la costante sensazione di trovarmi su una nave che affonda (in modo farsesco, tra l’altro, più che sul ponte del Titanic mi sembra di stare sul ponte della Concordia), ho diverse cose a cui appigliarmi per non lasciarmi cadere.

Eppure, lo sconforto, lo smarrimento (per la voglia di un lavoro stabile, di una famiglia, di una carriera da costruire passo passo perché sia sempre più gratificante e, allo stesso tempo, il rifiuto e l’incapacità di ottenere tutto questo) beh, mi porta a sentirmi di vivere una vita invivibile.

E no, non lo faccio, ma mentirei se dicessi che non sono spesso tentato di drogarmi o ubriacarmi fino a perdere conoscenza, di partire senza una meta, di arruolarmi nell’Isis.

Perché?

Perché non mi sento né carne, né pesce, perché non ho un posto, un momento, un ruolo, in cui mi riesca a sentire a casa, pacificato.

Come si esce dal videgioco?

Ora, che l’Occidente non abbia molte risposte da dare ai giovani, e che in futuro questa condizione di scollamento dalla realtà, che ci porta a sognare una vita da film (o da serie tv) talmente tanto da finire a essere così stupidi dal cercare di imitarla (tanto, ci sembra, è tutto virtuale, le conseguenze sono come quando si muore nei videogiochi, basta ricominciare da capo), è sotto gli occhi di tutti.

Che non significa giustificare le "bravate", anzi.

Ma se davvero vogliamo capire “i giovani”, dovremmo smetterla di ragionare con la logica del “voi”, con il pensarli alieni e autodistruttivi per ragioni incomprensibili, e cominciare a interrogarci profondamente sul tipo di società in cui viviamo, sulla capacità dell’Occidente di dar loro quel granitico insieme di certezze economiche e ideali su cui sia possibile edificare vite al riparo dalle bravate che finiamo a pagare con le nostre vite.

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Marco Cubeddu

Nato a Genova nel 1987, vive a Roma, è caporedattore di Nuovi Argomenti e ha pubblicato i romanzi Con una bomba a mano sul cuore (Mondadori 2013) e Pornokiller (Mondadori 2015). Credits foto: Giulia Ferrando

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