Donne e maternità, storie e dubbi
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Donne e maternità, storie e dubbi

Maternità surrogate, utero in affitto, legame madre-figlio. La cronaca ci pone davanti a domande dalle risposte complesse

La deriva dell’inimmaginabile è imboccata. Di chi si è figli quando alla nostra origine ci sono due o più spesso tre donne e un uomo? Quando, cioè, succede che una donna, cosiddetta “portatrice”, viene pagata per tenere in gestazione e partorire un bambino frutto dell’incrocio di due donatori che non necessariamente sono anche i committenti? La chiamano maternità surrogata. Portare in grembo un bimbo generato dal seme di altri e ad altri ancora consegnato al momento del parto (in cambio di denaro) si può definire "maternità"?

Per un grembo in affitto basta pagare: 30mila euro in Ucraina, 10mila dollari in India, 28mila in Cina, 60mila in Guatemala, 80mila negli Stati Uniti. Cosa per ricchi, insomma. Le cliniche fanno affari d’oro mentre alle donne “portatrici” arriva al massimo la metà della cifra pattuita.
 E però in internet si trova la testimonianza di una donna americana che un lavoro e uno stipendio ce l’ha, ha pure quattro figli suoi e ha vissuto altre due gravidanze surrogate spiegando che non l’ha fatto per i soldi. Semplicemente non voleva altri figli, ma essere incinta le piaceva così tanto che ha pensato di rendersi disponibile per qualcuno che questa bellissima esperienza non poteva viverla. Con la coppia committente ha instaurato un bel rapporto e quei bambini, ai quali si sente legata ma non in modo materno, li rivede puntualmente insieme ai due papà italiani che si occupano di loro. A sentire lei è stato un atto d’amore vissuto in semplicità, nulla di eccezionale, nessun trauma al momento del parto né dopo, nessun turbamento per aver affittato il suo utero. Come se il suo grembo fosse "scollegato" da tutto il resto. 

Del legame simbiotico che si forma tra la donna e il bambino durante i nove mesi di gestazione non rimane traccia? Rimosso forse dalla donna, il neonato ne porterà il ricordo inconscio per tutta la vita. Molti figli adottivi sentono la spinta ad andare a cercare la propria madre naturale rispondendo ad un desiderio istintivo che è un diritto, quello di conoscere la propria genealogia. Cosa succederà se e quando anche il figlio di una madre surrogata sentirà lo stesso impulso o desiderio che sia?

Nel nostro paese la pratica dell'utero in affitto è vietata dalla legge 40 del 2004, ma gli italiani la prendono ugualmente in considerazione, tanto più forse ora che il tribunale di Milano ha assolto una coppia ricorsa alla gravidanza a pagamento in Ucraina. Una volta nato, il bambino è stato registrato all’anagrafe di Kiev come figlio loro ed è arrivato in Italia con i genitori. Per la legge italiana figlio loro non è e ci si ritrova in una sorta di limbo normativo dove per tutelare il minore, evitando che diventi orfano e apolide, la tendenza è di sanare situazioni fuori dalla legalità lasciando il piccolo a chi lo sta crescendo.

Resta il fatto che nella cosiddetta “genitorialità patchwork” il figlio diventa un prodotto mercificabile, come tale soggetto a regole di mercato. Si compra e si vende, si esporta e si importa. E quale valore ha? Si può ancora chiamare figlio, cioè “il generato”? O non sarebbe forse più congrua una parola nuova per indicare un’origine che le biotecnologie hanno reso tecnicamente possibile, depersonalizzando la procreazione e abolendo il riferimento alla dualità in nome di un diritto assoluto adavereun figlio, costi quel che costi? Un diritto che mai è stato scritto in nessun codice antico o moderno che sia.

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Annalisa Borghese

Di origini lombardo-piemontesi-siciliane, giornalista, una laurea in lingue, due figli, tre saggi pubblicati e tradotti per alcuni paesi europei e del Sud America, diversi programmi culturali curati e condotti per tv regionali e per Rai Radio Due del Trentino Alto Adige, counselor con il progetto "Attraverso la mezza età"dedicato alle donne dai 40 ai 60 anni, da alcuni anni torno a scrivere con l’intento di contribuire alla riflessione sui temi del Femminile e del Maschile e alcuni brani del diario della mia maternità vengono utilizzati dalla regista Alina Marazzi per il suo film "Tutto parla di te".
Sono una romantica realista, convinta che il "conosci te stesso" degli antichi greci sia condizione imprescindibile per sentirsi abbastanza vivi ogni giorno.

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