Quando Morandi diceva: Cristo era comunista
(Ansa)
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Quando Morandi diceva: Cristo era comunista

Non si placano le polemiche per il suo post sui migranti di ieri e quelli di oggi. Lui però queste tesi le ha sempre sostenute come mostra una sua vecchia intervista

Si è detto «sorpreso» dal numero di messaggi ricevuti per il suo post che ha pubblicato ieri sulla sua pagina Facebook  dove ha affiancato due fotografie - una di emigranti italiani stipati all'inverosimile su un'imbarcazione diretto verso le Americhe agli inizi del secolo scorso, l'altra più recente di migranti nordafricani, anch'essi stipati come sardine e diretti in Italia. Sorpreso e «stupito» per la violenza verbale con cui è stato apostrofato per il suo ardito paragone contestato, ha scritto, da chi magari «ha famiglia, figli e la domenica va anche a messa. Certamente non ascolta però, le parole di Papa Francesco...». 

Guerra a colori ------------------------

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Panorama.it vi ripropone un'intervista realizzata nel 2009 da Maurizio Belpietro, allora direttore del nostro newsmagazine. Un'intervista nella quale il cantante parla di tutto, anche di politica, e del suo punto di vista, quello di un ex ragazzo emiliano cresciuto in una famiglia laica e di sinistra.

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Di Maurizio Belpietro, Panorama

La storia sta tutta in una canzone di oltre vent’anni fa. Un motivo simpatico, ma soprattutto canticchiabile, che però è anche la sintesi di una carriera sulle montagne russe: prima su, poi giù, poi ancora su. Sopravvivere sull’altalena, dall’esaltazione che ti dà la gloria alla depressione che ti infligge l’oblio, non è facile. Quando si è molto famosi e si finisce dimenticati, il colpo è duro. C’è chi affoga (nell’alcol, nella droga o nel gioco, non fa differenza), chi si ritira dietro alle quinte di una vita normale, pochissimi riemergono. Uno su mille ce la fa. Proprio come il titolo della canzone. Ecco perché la vita di Gianni Moranti mi incuriosisce.

Come fa uno, travolto dal successo a 15 anni e stravolto dall’insuccesso a 25, a resistere, a non farsi buttare via come una scarpa vecchia?
Non è stato facile. Prima la mia popolarità non mi permetteva di uscire di casa: ogni volta che andavo al cinema in sala accendevano le luci perché la gente voleva vedermi. Non le dico il servizio militare: una volta il colonnello mi ha messo in garritta ed è successo il finimondo. Poi all’improvviso tutto è cambiato. Era il 5 luglio del 1971: al Vigorelli di Milano suonai prima dei Led Zeppelin e mi tirarono ogni cosa. Lì capii che il pubblico non voleva più saperne di me. Stava nascendo un’altra musica, fatta di cantautori e canzoni politiche. E io con questa nuova musica non avevo nulla a che fare.

Perché non ha cercato di adeguarsi ai nuovi gusti?
Per la verità ci provai. Ci inventammo canzoni impegnate, nuovi stili. Ne preparai due, ma quando le feci ascoltare alla mia casa discografica, tutti scossero il capo. Non era il mio genere. Nel tentativo di stare al passo con i tempi misi in scena un musical su Jacopone da Todi, il francescano laico che si oppose a Bonifacio VIII. Era uno spettacolo molto provocatorio, con cose folli tipo il papa che faceva pipì in scena. Fu un disastro. Giorgio Gaber, l’unico che riuscì a passare dalle canzoni leggere a quelle impegnate, venne a teatro e mi disse: "Ma che cos’è questa roba?".

Roba da stordire chiunque. E lei?
Non è che non fossi stordito. Ormai avevo accantonato l’idea di fare il cantante. Nonostante avessi venduto più di 30 milioni di dischi, facevo perfino fatica a farmi ricevere dai dirigenti della Rca. Quando passavo per gli uffici della mia casa discografica mi sentivo un fantasma, che pochi avevano voglia di salutare. Toccato il fondo, decisi dunque di ritirarmi. E mi misi a studiare un po’ di musica, al Conservatorio Santa Cecilia, a Roma. In mezzo ai ragazzini che avevano la metà dei miei anni, io che avevo già due figli, imparai a suonare il contrabbasso.

Dura?
Sì, ma un po’ ero preparato. Mio padre mi aveva avvertito che il successo non era per sempre. La sua ossessione era che io mettessi da parte i soldi per pagare le tasse. Così, almeno su quel fronte, quello dei soldi intendo, non ci furono problemi.

Da cinquant’anni tiene un diario, chissà com’erano nere le pagine in quel periodo…
Nerissime. Non andava male solo la carriera, anche il matrimonio. Finì che mi separai (da Laura Efrikian, ndr) e morì anche mio padre. Eravamo a Caracas, in Venezuela, per due spettacoli e il mio manager, Adriano Aragozzini, gli propose di andare a New York. Una cosa impensabile per lui, comunista tutto d’un pezzo e responsabile della diffusione dell’Unità e di Rinascita a Monghidoro, il paese in provincia di Bologna dove sono nato e dove anch’io da ragazzo ho distribuito giornali militanti la domenica mattina. Per papà il futuro era in Russia e non voleva saperne di visitare il tempio del capitalismo. Alla fine si era convinto, ma purtroppo non ha mai visto la Grande mela. Un infarto lo ha stroncato a 49 anni.

Un comunista con il figlio milionario. Che cosa dicevano i compagni della sezione Enrico Calzolari, partigiano ucciso dai tedeschi?
Gli rinfacciavano di essere diventato ricco, ma lui rispondeva che non c’era scritto da nessuna parte che un comunista dovesse essere per forza povero. Ricordo ancora la vergogna quando Gente uscì in edicola con il titolo "Gianni Morandi, il comunista da un milione al giorno".

Quando si rese conto che al di là del Muro non c’era il Sol dell’avvenir?
La sua fede non fu intaccata né dall’invasione dell’Ungheria né da quella della Cecoslovacchia.Certo, se fosse stato vivo la scomparsa dell’Urss per lui sarebbe stato un duro colpo.

E per lei?
Per capire che qualcosa non andava non ho certo aspettato il novembre dell’89. Anni prima, quando l’Unione Sovietica era nelle mani di Yuri Andropov, mi capitò di cantare a Kiev. Mi ritrovai davanti a migliaia di persone sedute, in rigoroso silenzio, con le guardie rosse immobili davanti al palco che controllavano tutto e tutti. E lì mi è venuto qualche dubbio, anche perché ero un seguace di Enrico Berlinguer e della via italiana al comunismo.

Il Pci le chiese più volte di candidarsi, perché declinò sempre l’offerta?
Perché uno non s’improvvisa politico o amministratore. Sì, mi domandarono di fare il sindaco a Mentana, poi di presentarmi alle elezioni per la Camera del deputati, ma non faceva per me.

Ma adesso, in politica, con chi sta?
A essere sincero sono un po’ deluso dal Partito democratico. Io vorrei che l’opposizione facesse politica senza liti continue, che tornasse ad ascoltare la gente. Certo, Walter Veltroni ha le sue belle gatte da pelare, anche perché sul fronte opposto c’è un comunicatore bravissimo, micidiale.

Il segretario del Pd lo conosce?
Sì, da quasi trent’anni. La prima volta che lo incontrai, mi intervistò per un suo libro, Il sogno degli anni Sessanta.

E Silvio Berlusconi?
Lo vidi ad Arcore, nel 1992. Sapeva tutto della mia vita. Appena arrivai mi chiese come stavano i miei figli Marco e Marianna e come procedevano i miei progetti di lavoro. Era preparatissimo. A sinistra non c’è nessuno così. Anche Massimo D’Alema sostiene che Berlusconi sa comunicare meglio di chiunque altro.

Si è pentito di avere cantato in tv con D’Alema?
Assolutamente no. Lui, che ai tempi era presidente del Consiglio, venne in trasmissione (C’era un ragazzo, ndr) e il risultato fu un casino pazzesco. Mi attaccarono tutti. Eppure, io avevo portato in televisione anche Giulio Andreotti in un programma per i quarant’anni di Sorrisi e Canzoni. Con lui ho anche giocato a carte più di una volta. Ci sfidavamo a gin rummy, un gioco a due che si svolge con un mazzo di 52 carte.

A proposito: si dice che negli anni Settanta lei abbia avuto problemi con il gioco d’azzardo.
Ero completamente sballato: facevo tardi la notte, bevevo whisky, frequentavo diverse donne, giocavo a poker e perdevo soldi. A volte, anche 6, 7 milioni in una sera. Allora con quelle cifre si acquistava un appartamento.

Cifre in grado di prosciugare un patrimonio. Quanto aveva messo da parte?
Tanto. Faccia conto che un anno in cui avevo venduto dischi per quasi 2 milioni di copie, mi liquidarono 75 milioni dell’epoca, più i concerti…

Problemi di droga?
Per fortuna no. Ma nel 1986 venni indagato con Eleonora Giorgi per una vicenda bizzarra. La polizia aveva trovato il mio nome nell’agenda di una ragazza arrestata per stupefacenti. Lei disse che mi procurava la droga. Così mi sono trovato la polizia in casa alle 5 del mattino con tanto di cani. Quando li ho visti, mi sono preoccupato perché avevo in un cassetto 12 mila dollari guadagnati per un concerto a New York. Ma appena ho capito che cercavano cocaina mi sono messo a ridere. La perquisizione si è conclusa con autografi e strette di mano. Quando la notizia del mio coinvolgimento nell’inchiesta venne pubblicata, Mogol fece una battuta straordinaria: "Adesso ho capito perché corri così tanto". E poi aggiunse: "Almeno la farai finita con quella fama da bravo ragazzo".

Un amico...
Beh, dagli amici ogni tanto arrivano staffilate. Come quando dissi a Francesco Guccini: "Tu hai fatto Auschwitz, io C’era un ragazzo". Lui rispose: «Sì, ma la mia è una grande canzone, la tua una stronzata».

Come andò invece con Pupo?
Per lui era un brutto momento: aveva perso cifre folli al casinò, la carriera traballava e in più aveva speso molti soldi per costruire un albergo vicino ad Arezzo. Era convinto che a pochi metri del suo hotel avrebbero fatto un casello dell’autostrada: una bufala. Si trovò pieno di debiti e alle prese con brutta gente. Gli prestai una bella cifra, l’equivalente di 100 mila euro di oggi. Per un po’ sperai che me li rendesse, perché ogni volta che mi vedeva mi giurava che mi avrebbe ridato fino all’ultima lira. Poi ci misi una pietra sopra. Invece, 25 anni dopo, nel mezzo di un mio spettacolo salì sul palco con in mano un assegno e le telecamere di Striscia la notizia alle spalle. Fu una sorpresa: niente di annunciato: ormai quei soldi li davo per persi.

E che ne ha fatto di quei soldi?
Li ho messi da parte per finanziare alcune associazioni che danno una mano a chi soffre.

E chi se ne occupa?
Io, ascolto i casi e poi do 3-4 mila euro. Ma questo non lo scriva, che è meglio non parlarne.

Non mi ha ancora detto come ha fatto, lei su mille o forse su un milione, a farcela, a risalire.
Ce l’ho fatta per caso. Il merito è di Mogol, che un giorno mi chiamò. Io speravo che volesse scrivere una canzone per me, perché aveva appena litigato con Lucio Battisti. E invece no. Voleva chiedermi se volevo giocare a calcio nella nazionale cantanti. Per me fu una delusione, ma dissi di sì. Grazie al calcio, iniziammo a frequentarci e a conoscerci. Così, dopo qualche mese, nacque una canzone. E rinacque anche la mia carriera.

Perché una sera ha deciso di mostrarsi in mutande in tv?
C’era una feroce battaglia di ascolti tra me e Maria De Filippi, così decisi di fare una provocazione. La mia attuale consorte, Anna Dan, la prese malissimo e si mise a piangere per la vergogna. Ho capito d’avere combinato un guaio solo quando all’uscita della Rai mi sono trovato davanti un inviato delle Iene completamente nudo che mi aspettava. Ma capii anche che l’Auditel funziona sul serio: eravamo al 24 per cento e in pochi minuti abbiamo toccato il 34.

Ha altri programmi televisivi in cantiere?
Per ora no. Fino a maggio sarò in giro per l’Italia con il mio tendone. Sul palco ci siamo soltanto io e la mia chitarra.

Perché vietò a sua figlia Marianna, quando aveva 14 anni, di recitare in una fiction?
Non ci si improvvisa attori, prima bisogna studiare. Forse sono stato troppo severo. Ma io sono un genitore severo: Marianna non è mai uscita di casa la sera fino al giorno del suo diciottesimo compleanno.

Come sono i rapporti con Biagio Antonacci dopo il divorzio da Marianna?

Ottimi. È un bravo ragazzo ed è anche il padrino di Pietro, il figlio nato dal mio secondo matrimonio. Gli ho anche chiesto di scrivermi una canzone, ma non l’ha ancora fatto. Mi ha detto che è troppo impegnato a comporre le sue.

E perché non prova lei a scrivere?
Ci ho provato ma alla fine i grandi successi sono quelli che gli altri hanno scritto per me. Io del resto le canzoni le chiedo a tutti.

"Un altro mondo", il suo ultimo brano, è di Tricarico, quello che a Sanremo cantava "io voglio una vita tranquilla".
Un tipo introverso, che però ha molto talento. Gli ho chiesto di scrivermi qualcosa e lui si è presentato da me con una cassetta, come negli anni Ottanta. Non si sentiva quasi niente, però il pezzo c’era.

Un’ultima domanda: che rapporto ha con la fede?
Vengo da una famiglia atea.

Mai fatto il chierichetto?
Mai. Ma sui cinquant’anni ho cominciato a sentire un sentimento nuovo, un’attrazione verso la religione. Così ho cominciato ad andare in chiesa. Ricordo ancora il titolo di un quotidiano: "Morandi lascia Stalin e prende Gesù". Dico una banalità, ma l’unica ideologia a cui oggi ci si può appoggiare è la lezione di Gesù Cristo. Anche D’Alema sostiene che i valori cristiani sono l’unico riferimento che possiamo avere.

Si sente più un cristiano che un uomo di sinistra?
Ma Cristo era di sinistra...

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