Se Giulio fu un Belzebù, l’Italia ne ha avuti tantissimi
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Se Giulio fu un Belzebù, l’Italia ne ha avuti tantissimi

Quando fra molto tempo sarà analizzato il cinquantennio andreottiano, difficilmente il quadro assomiglierà a quello disegnato dalla procura di Gian Carlo Caselli

Se Giulio Andreotti è stato Belzebù, l’Italia ne ha avuti tanti, tantissimi. Perché ha ragione Pier
Ferdinando Casini quando dice che, pur non essendone mai stato segretario, Andreotti era la Dc. E
la Dc era l’Italia, anche di quelli che non l’hanno mai votata e anzi l’hanno sempre combattuta.

Era l’Italia con i difetti delle clientele e della spesa pubblica galoppante, quella che diceva troppi sì
e pochi no, ma anche quella laboriosa, lavoratrice, risparmiatrice, con la testa sulle spalle, con la
capacità di stare ben salda nella Nato, ma pronta a fare accordi, quando necessario, con il più forte
partito comunista d’Occidente.

E capace di risorgere con incredibile rapidità dalle rovine della guerra, diventando presto uno dei
Paesi più ricchi e industrializzati del mondo. Andreotti l’ha attraversata tutta, questa Italia e questa
Dc, da quando l’ha vista fondare da Alcide De Gasperi, di cui fu il giovanissimo braccio destro, a
quando l’ha vista morire, sotto i colpi di Tangentopoli.

Lui sopravvisse alla grande agli assalti di Mani pulite: non gli trovarono in tasca un centesimo
e, non essendo mai stato segretario del partito, non poterono crocifiggerlo con il «non poteva non
sapere» che fu fatale all’onestissimo Arnaldo Forlani.

Ma poiché Andreotti era la Dc, e non si poteva ammettere che la Dc sopravvivesse alla sua
distruzione, gli cucirono addosso il «processo del secolo» per dimostrare che il simbolo
carismatico del partito era un capomafia a tutti gli effetti. Gliene affibbiarono anche uno
accessorio, una robetta da niente: essere il mandante dei sicari che ammazzarono il giornalista Mino
Pecorelli.

Andreotti fu assolto in primo grado e condannato a 24 anni in appello, con una sentenza poi
annullata dalla Cassazione. L’agenzia Ansa parlò il 28 marzo 1993 di una connessione Andreotti-
Pecorelli otto giorni prima che Tommaso Buscetta ne riferisse ai procuratoridi Palermo. Poi
Buscetta ritrattò, ci fu un gran pasticcio e tutto finì nel nulla.

Ma restava il «processo alla storia d’Italia» che vide per 10 anni alla sbarra il simbolo stesso
della Dc, con le cancellerie di tutto il mondo che si chiedevano sbigottite se l’Andreotti moderato e
affidabile che esse avevano conosciuto dal dopoguerra in poi non foss’altro che un capomafia senza
coppola.

Si sa com’è finito quel processo: assoluzione totale in primo grado, assoluzione in appello limitata
al periodo successivo al 1980, prescrizione per il periodo precedente. Ma sull’opinione pubblica
quei 10 anni di indagini e dibattimenti sono scivolati come goccia sul marmo: chi credeva che
Andreotti fosse un criminale ha continuato a crederlo (si vedano tanti Twitter del 6 maggio), chi
pensava che non fosse un santo, ma non avesse commesso niente di quel che gli contestavano, si è
rafforzato nelle proprie convinzioni.

Alla storia resterà il tentativo di cancellare l’onorabilità del partito che ha guidato l’Italia per
50 anni. Quando nel 2003 chiesi ad Andreotti se fosse un caso che le inchieste di Palermo erano
state aperte nei confronti dell’unico esponente del famigerato Caf (Craxi-Andreotti-Forlani)
sopravvissuto a Tangentopoli, rispose: «Direi di no. Nelle inchieste per corruzione prima o poi devi
portare qualcosa che assomigli a una prova. Sulla mafia no. Salvo Lima è morto, era sospettato di
legami con la mafia, era amico mio, dunque anch’io ero legato alla mafia».

Cosa nostra ha cercato rapporti col potere sempre e ovunque (al punto che il presidente Enrico
Letta oggi deve riaffermare a Milano: «La mafia non entrerà all’Expo»). È verosimile che
la Dc prima del 1980 abbia fatto compromessi, ma incarnarli solo in Andreotti è almeno una
semplificazione. Dopo l’assassinio di Piersanti Mattarella (Epifania del 1980), presidente dc della
Sicilia, Andreotti reagì con provvedimenti legislativi di una durezza perfino di dubbia legittimità.

In una visione ormai storica, che unisce anche l’analisi critica di Tangentopoli, è fallito comunque il
tentativo di dipingere la Prima repubblica come un coacervo di ladri e di mafiosi. Ci furono gli uni
e gli altri, ma quando fra molto tempo sarà analizzato il cinquantennio andreottiano, difficilmente il
quadro assomiglierà a quello disegnato dalla procura di Gian Carlo Caselli.

Verrà fuori piuttosto il ritratto di un periodo in cui l’Italia era, sì, filoaraba, ma sapeva proteggere
anche Israele (si veda l’omaggio post mortem di Shimon Peres). Era europeista, ma sapeva discutere
con Margaret Thatcher. Soprattutto, nei momenti di grande crisi, sapeva mettere insieme forze
ideologicamente molto distanti. Era avvenuto nel Cln alla fine della guerra, è accaduto tra il 1976 e
il ’79 per fronteggiare insieme, cattolici e comunisti, l’emergenza economica e il terrorismo.

La lezione deve essere stata efficace, se si è ripetuta in questi mesi a cavallo tra la Seconda e la
Terza repubblica. Se il messaggio di Andreotti era: nei momenti difficili parlatevi tutti, qualche
seme ha prodotto i suoi frutti.

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Bruno Vespa