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Dopo il referendum: il futuro di Renzi e del Pd

Se vince il "sì" il segretario eviterà di vendicarsi di una minoranza ininfluente. In caso contrario sarà la fine della convivenza con Bersani

“Fuori fuori” scandisce una parte della platea riunita sotto le arcate della vecchia stazione di Firenze per la settima edizione della Leopolda, incubatrice, culla e megafono del verbo renziano dal 2010. Sul palco Matteo Renzi sta elencando i nomi di tutti quelli che c'erano prima di lui e che, votando “no” al referendum costituzionale del 4 dicembre, vorrebbero - a suo dire - dargli la spallata finale e tornare loro.


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Quando tocca a Pier Luigi Bersani, inserito tra “i teorici della ditta quando ci sono loro e dell’anarchia quando ci sono gli altri”, tra gli “stessi che 18 anni fa decretarono la fine dell’Ulivo perché non comandavano loro, e ora provano a decretare la fine del Pd”, il pubblico esplode: “fuori”. Ma se il giorno prima Maria Elena Boschi aveva chiesto di non fischiare Massimo D'Alema, stavolta niente. I detrattori di Bersani si accomodino pure, in fondo da 6 anni questa è casa loro e non è più tempo né di sconti né di bon ton politico.


Pier Luigi Bersani e Matteo Renzi rappresentano da tempo le due anime inconciliabili del Partito Democratico. Mancava solo l'occasione per ufficializzare la rottura. E l'occasione è arrivata con il referendum. “Ci sono i democratici per il sì e i democratici per il no” sostiene l'ex segretario. La domanda è se resteranno nello stesso partito anche dopo il 4 dicembre.

Il leader della minoranza parla di “un solo partito” dal quale non intende uscire perché “il Pd è casa mia” - anche se lo trattano come un ospite sgradito – e perché il Pd non è il Partito di Renzi che tuttavia oggi ne possiede le chiavi e, secondo molti renziani, avrebbe tutte le ragioni per lasciare il suo coinquilino sul pianerottolo. Lo farà davvero? Renzi caccerà Bersani dal Partito democratico all'indomani del referendum? No, ovviamente.

Non come fece Silvio Berlusconi con Gianfranco Fini all'epoca del Pdl, non come fa Beppe Grillo con i ribelli del Movimento 5 Stelle. Non ci saranno espulsioni dal Pd, se è questo che in tanti si chiedono. Piuttosto ci saranno espulsioni dalle prossime liste elettorali. Che è un altro modo per decidere chi ha diritto di residenza e chi no. Più probabile che, dopo il 4 dicembre, una scissione interna ai dem finisca all'ordine del giorno. E questo sia che a vincere sia il sì, sia che a vincere sia il no.

Ma è più probabile che ciò avvenga se ad affermarsi sarà il "no". Se vince il “sì”, al netto dei contraccolpi sulla compilazione della lista dei futuri candidati in Parlamento, Renzi potrebbe anche astenersi da una vendetta totale contro una minoranza ininfluente che pur di sbarazzarsi di lui ha disconosciuto una riforma votata per sei volte in Parlamento e lo ha fatto nonostante l'accordo sulla revisione dell'Italicum, condizione posta da Bersani e i suoi per votare “sì”, che ha recepito tutte le loro richieste.

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Ma se vince il “no”, non ci sarà pietà per nessuno. Se vince il “no”, Matteo Renzi, lo ha fatto chiaramente intendere evocando lo spettro del “governicchio tecnichicchio” che non lo vedrà mai complice, lascerà Palazzo Chigi, si asserraglierà al Nazareno e forte del suo, e solo suo, 48% - la percentuale con cui il “sì” sarà sconfitto l'ha profetizzata lui stesso – sferrerà l'attacco finale in vista del congresso del partito e delle prossime elezioni.

Se vince il “no” Matteo Renzi non lascerà affatto la politica come promise in conferenza stampa alla fine dell'anno scorso. Non a caso ha già annunciato le date della prossima Leopolda, da 20 al 22 ottobre del 2017. È infatti possibile che, lungi da interromperne per sempre la carriera, la probabile sconfitta del 4 dicembre finisca paradossalemente per rafforzarlo. Se vince il “no”, chi tra lui e Bersani avrebbe più motivi di temere per il proprio futuro, potrebbe non dover essere il rottamatore fiorentino.

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Claudia Daconto