Matteo Renzi. No no no non finisce qui
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Matteo Renzi. No no no non finisce qui

E ora che cosa farà Matteo Renzi? Davanti a sé ha tre strade: trattare con Bersani, spaccare il Pd, erodere il potere del segretario. Comunque il suo primo passo sarà strappare il maggior numero possibile di eletti nel prossimo Parlamento. Poi...

«Per settimane, quando dicevo che non avrei fatto accordi con nessuno, le sale diventavano arene e la gente si spellava le mani. Quando ho ripetuto la stessa cosa a Pontedera, alla chiusura della campagna elettorale, la reazione delle persone è stata insolitamente fredda». Saranno la pioggia malinconica («Il tempo non ci ha dato una mano»), l’adrenalina che cala inesorabile («Sono più che stanco, sono distrutto, ma sentirò la nostalgia per le serate al comitato e nel camper»), un litigio consumato via sms con Pier Luigi Bersani («L’ho quasi mandato a quel paese»); sarà soprattutto la notte carismatica di Firenze, ma il risultato è che con PanoramaMatteo Renzi si abbandona a qualche confessione fuori dagli accomodanti standard postelettorali ostentati in pubblico subito dopo i risultati del ballottaggio per le primarie del Partito democratico, il 2 dicembre: «Io sono leale, non remo contro. Se però vogliono una mano, me la devono chiedere, anzi mi devono implorare. È per come mi hanno trattato sul piano personale. Io e la mia famiglia siamo amareggiati. Peggio: indignati»

È una notte, quella di Matteo, che porta consigli per Bersani. E qualche notizia. Dalla più importante si deduce la volontà del candidato sconfitto di non chiudere la sua avventura nazionale. È vero, lui insiste che non accetterà «premi di compensazione», è già tornato «a fare il sindaco» e di certo non mente. Però poi rivela che una trattativa con il Partito democratico c’è: non riguarda se stesso, ma la quantità di parlamentari della sua area da eleggere alle politiche del 2013. «Non me ne occupo personalmente, io trattative non ne faccio» spiega «ne devono parlare con Graziano Delrio. È lui l’uomo che lavora a queste cose. È in gamba e ha la giusta esperienza».

Delrio è sindaco di Reggio e presidente dell’Anci. Stessa radice cattolica dell’amico Matteo, in breve tempo ha guadagnato molte posizioni nella scala gerarchica di Cambiamo l’Italia, il comitato elettorale di Renzi, fino a diventarne «l’uomo forte», soprattutto dopo avere suggerito al suo candidato la dritta sul «Bersani fondatore di Equitalia».

Dal fronte Pd risultano già due telefonate intercorse tra Delrio e Maurizio Migliavacca, il Gianni Letta di Bersani, emiliano pure lui, piacentino di Fiorenzuola d’Arda, a 40 minuti scarsi d’auto da Reggio. Delrio e Migliavacca berranno un caffè assieme nel fine settimana dell’8-9 dicembre. Magari a Parma, a metà strada. Non sarà un incontro risolutivo, ma aprirà una trattativa dalla quale dipende il futuro non solo del Partito democratico ma dell’Italia intera.

Per spiegarlo l’unico modo è percorrere la via dei freddi (e noiosi) numeri. Con Renzi pienamente coinvolto nel prossimo voto politico, il Pd potrebbe sfondare il muro del 35 per cento dei consensi. Gli staff di Matteo e di Pier Luigi hanno già simulato gli effetti di un successo simile, che porterebbe all’elezione di circa 280 deputati e di almeno 145 senatori. Una parte spetta ai renziani, pronti a chiedere una percentuale di eletti uguale a quella ottenuta alle primarie: il 39,1 per cento. In seggi vorrebbe dire 110 deputati e 55 senatori.

Tanti, troppi. È una cifra che Bersani e Migliavacca non prendono nemmeno in considerazione. Il loro punto di vista è che hanno vinto, quindi stabiliscono le cifre per Renzi come per tutte le altre componenti del Pd (dai dalemiani alla corrente di Rosy Bindi). Nello specifico, a Cambiamo l’Italia i bersaniani intendono offrire un 10 per cento circa degli eletti: 30 deputati e 15 senatori. Come potrebbe finire? Come al solito in Italia: a metà fra le due opzioni. Delrio dovrebbe ottenere tra i 70 e gli 80 deputati e tra i 30 e i 40 senatori.

Sono numeri che asseconderebbero perfettamente il programma a medio termine di Renzi. Gruppi così forti lo farebbero diventare decisivo per ogni scelta del governo. Per dire, molti sono preoccupati dell’incidenza di Nichi Vendola, che però di parlamentari riuscirà a eleggerne tra i 40 e i 50. Ciò significa che, se da premier Bersani per esempio volesse davvero imporre la patrimoniale, Renzi (nettamente contrario) sarebbe in grado di stopparla. Mentre un Vendola al governo, se pure puntasse il dito contro le missioni militari italiane all’estero, nulla potrebbe fare. Almeno dal punto di vista dei numeri, Nichi sarebbe prigioniero di Bersani, Matteo no.

Naturalmente il leader del Pd è ben consapevole del cuneo politico nel quale si potrebbe infilare. Ma qualche vantaggio lo otterrebbe pure lui. Anzitutto, più posti nelle due Camere si daranno a Renzi, più ne saranno tolte alla vecchia guardia (Massimo D’Alema e Bindi, più Beppe Fioroni e altri ancora), che nemmeno il segretario sopporta più con clamoroso fair play. Poi, con dentro un Matteo pubblicamente entusiasta e soddisfatto, coprirebbe anche il centro della scena politica, liberandosi dei continui (e forzati) ammiccamenti a Pier Ferdinando Casini. Infine, punto più importante di tutti gli altri, se venissero confermati i sondaggi trionfanti dei giorni immediatamente successivi alle primarie, Bersani si libererebbe dal convitato di pietra delle elezioni, l’ormai disponibile Mario Monti. Per il Professore, dicono dalla segreteria Pd, «con queste cifre non c’è più trippa per gatti». Il problema è che molta l’ha mangiata Renzi.

È questa infatti la più grande forza del sindaco di Firenze: o Bersani gli concede un gruppo parlamentare consistente, oppure il segretario accetta il rischio di finire commissariato da Monti. L’idea è condivisa da tutti i sondaggisti: privato di Renzi, nelle urne il Pd oggi finisce sotto il 30 per cento. E il Senato diventa a maggioranza variabile, la migliore opzione per un ritorno del Professore. Per questo Matteo può permettersi di stare alla finestra. «Con le loro regole bizzarre, hanno persino rifiutato i voti di migliaia di miei sostenitori per le primarie. Voglio vedere come fanno a chiederli alle stesse persone per le politiche» sottolinea sottovoce al suo portavoce (e scusate il gioco di parole). D’altronde, qualora Delrio non ottenesse ciò che chiede, sono già pronti due piani alternativi. Diciamo subito che è escluso l’assalto alla segreteria del Pd, a cavallo tra 2013 e il 2014, quando ci sarà il congresso. Renzi sicuramente vorrà incidere, ma l’idea di mettersi a trattare quotidianamente con le correnti proprio non lo attira. Ha ben presente lo stillicidio di cui fu vittima Francesco Rutelli mentre era leader della Margherita: le varie anime democristiane del partito tenevano sotto scacco il segretario, forte in tv ma scarso di tessere. Figurarsi come può essere invadente l’apparato postcomunista del Pd.

Più plausibile è invece il «piano scissione». Teorizzato da Roberto Reggi, coordinatore della campagna per le primarie, era il più gettonato da parte del popolo renziano nell’immediatezza della sconfitta. Ma è escluso che possa scattare subito. Non a caso, il coordinatore è stato il primo a parlare la sera del 2 dicembre, a urne appena chiuse, mentre Renzi preparava il suo discorso finale (insieme ad Alessandro Baricco, va da sé). Solitamente fumantino, Reggi è stato fin troppo accomodante, pur di calmare la folla: «Mettiamo la nostra energia a disposizione di Bersani» replicava come un automa. Salvo poi annunciare, nel day after, che «i comitati pro Renzi resteranno aperti. Non si può disperdere tutta questa gente».

Ecco, quello che Reggi non poteva né può aggiungere è il seguente fatto: i comitati diventano permanenti perché sono un embrione di nuovo partito, da schierare eventualmente a medio termine. E solo dopo averlo organizzato bene, in maniera strutturale. Non è secondario, anzi: fra i contrari alla scissione e al consolidamento dei comitati c’è Tiziano, il padre di Matteo. Orgoglioso del figlio ma offeso dal Partito democratico: «D’altronde» spiega il Renzi sindaco «mi hanno detto di tutto, persino che prendevo soldi da chissà chi. Ugo Sposetti (l’ex tesoriere dei Ds, ndr) ha ventilato che arrivassero anche dall’estero. Ma prima delle primarie avevo 20 mila euro sul conto, ora anche meno. Si può controllare».

Il terzo scenario si potrebbe definirlo «piano erosione». Renzi e i renziani ne sono convinti: senza di loro il centrosinistra risulterebbe più o meno come l’Unione che affossò Romano Prodi. Con Bersani o Monti a Palazzo Chigi fa lo stesso: Matteo può restare alla porta, erodere nel tempo il potere del premier designato, conquistare definitivamente la scena italica dalla piazza di Firenze e diventare di fatto il salvatore della patria quando il Pd crollerà. A quel punto anche la gran parte della nomenclatura che ora lo odia gli si farebbe amica.

Impossibile? In politica accadono cose che noi umani non possiamo neanche immaginare. Fra l’altro, è già avvenuto con la nomina di Walter Veltroni a segretario del Pd, nel 2007, proprio a danno di Bersani. Fu D’Alema, a sorpresa, a invocare il nome di Walter, che detestava come ora detesta Renzi. Il quale fa il vago ed esprime un solo concetto: «Io ho 37 anni. Questa è una differenza positiva. E invece la stampa e la nomenclatura di partito mi hanno descritto come un ragazzino ambizioso. Mentre io volevo davvero cambiare l’Italia. E Dio solo sa quanto ancora c’è bisogno di farlo».

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