Matteo Renzi, il monello che toglie il sonno al notabilato Pd
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Matteo Renzi, il monello che toglie il sonno al notabilato Pd

Un consenso anche nella base ex comunista. E una capacità inedita di tessere alleanze. Ecco perché il sindaco di Firenze può davvero vincere la corsa alla premiership

Mescola un po’ di Alighieri, shakera un po’ di Monti con la parola compagni, scala il partito e aizza i cuori di destra (attenzione, la Santanché, se vince ha annunciato che lo bacerà). Non vi convince ancora? Ah sì! Lo odiano Massimo D’Alema, insieme al capogruppo alla Camera Dario Franceschini, per non parlare di Rosy Bindi, anche lei destinata alla rottamazione nelle intenzioni del monello di Firenze. Rottamazione: questa parola è finita per rimanergli addosso come etichetta. Di sicuro con un sostantivo Matteo Renzi è riuscito a ammansire gli scontenti di oggi che hanno la tessera del Pd e ammaliare gli scontenti di ieri che avevano la tessera del Pci.

E adesso potrà apparire sciocco, ma che la base ex-comunista applauda un democristiano (tanto che L’Unità è andata a scovare gli articoli liceali del sindaco di Firenze, quando si batteva per la rottamazione dei democristiani) una certa stranezza la suscita. Lo hanno preso in giro per i suoi slang, lo hanno preso in giro per il camper che ha scelto come mezzo per girare l’Italia e sfidare Bersani, lo scimmiotta Crozza, Grillo addirittura utilizza il nobile Fortebraccio per demolirlo:  “Hanno bussato non era nessuno. Era Renzi”.

Eppure Renzi, faccia tosta ne ha, al punto da mettere a disagio un flemmatico Pierluigi Bersani che si vede insediata la leadership del partito. E lui – il monello fiorentino, che ha fatto ammattire già il Pd a Firenze, quando da presidente delle provincia sfidò contro il volere dei big, Lapo Pistelli vincendo alle primarie – carte sembra averne. Non tanto l’essere giovane che rimane categoria politica anche troppo logorata, quanto per l’impasto tra vecchio e nuovo che riesce a mescere.
Ultima rivelazione è quella che lo vuole in buoni rapporti con Romano Prodi che lo stima, per non parlare dell’appropriazione che Renzi ha fatto della famigerata agenda Monti (che il faceto Stefano Fassino così caricaturizza: “Ma dove si compra questa agenda?”). Operazione non dissimile da quanto aveva fatto precedentemente con Sergio Marchionne, schierandosi al suo fianco e contro l’articolo 18.

Sarà per questo che la sinistra lo avverte come un corpo estraneo. Ma allora come si spiega il plauso che ha riscosso in quella che è la sua overtoure alla discesa in campo annunciata per il 13, ovvero il successo che ha ottenuto nelle varie feste democratiche e al suo esordio nella Vasto della foto stracciata tra Bersani, Vendola e Di Pietro?
I trinariciuti, come dire i comunisti che come reliquia tengono nelle scatole di alluminio la tessera del Pci, lo hanno coccolato nelle sue ultime uscite. Un’accoglienza che ha messo in subbuglio il vate del Pd, Massimo D’Alema, che lo ritiene inadatto a presentarsi di fronte ad Angela Merkel e che ha fatto infuriare Beppe Fioroni, ex ministro, che addirittura ha chiesto a Renzi di dimettersi da sindaco per candidarsi alle primarie. Per tutta risposta, Renzi, non solo non si vuole dimettere e nel caso di sconfitta rimanere sindaco di Firenze, ma ha anche chiesto secondo quale dettato un candidato alla premiership debba candidarsi al parlamento, zittendo Fioroni.

E così vola nei sondaggi tanto che adesso il problema sarebbe come votare a queste primarie: doppio turno? Albo degli iscritti? Chissà. Finora tutte le polemiche sul suo conto, dalla visita ad Arcore fatta al vecchio premier Berlusconi   all’avversione degli storici volti del Pd, lo hanno aiutato, come sostiene Roberto Reggi, il sindaco di Piacenza e coordinatore della sua macchina organizzativa alle primarie. E se Renzi passa per il nuovissimo, una precisazione va fatta senza nulla togliere. Ebbene proprio militante venuto su da nulla non lo è. Il padre Tiziano Renzi è uno tra gli ex democristiani più influenti in quel di Firenze e precisamente a Valdarno dove è pure segretario del Pd cittadino e uomo forte degli strilloni toscani, della distribuzione dei quotidiani della regione.

Di suo, il figlio ci mette la faccia scout che rasserena le madri, una tesi sul grande sindaco Giorgio La Pira, che rasserena la parte cattolica. Quindi, ricapitolando, viene dalla Democrazia Cristiana, finisce nel partito popolare italiano giovanissimo, transita nella Margherita, approda nel Pd. Il clamore, come detto, lo suscita però quando da presidente della provincia decide di candidarsi a sindaco di Firenze contro il candidato “ufficioso” del Pd.

Battuto Pistelli, Renzi comincia a picconare l’élite di partito non risparmiando nessuno e nel frattempo fa di Firenze la città del sogno renziano, chiusa al traffico, un po’ Roma veltroniana, un po’ laboratorio di future aspirazioni nazionali quando poco più di un anno fa alla Leopolda,  fa partire il suo “Lingotto” (il manifesto programmatico del primo segretario del Pd, Walter Veltroni, ndr). Lo seguono i giovani del partito da Pippo Civati a Sandro Gozi, cammin facendo si aggiunge Deborah Serracchiani, Matteo Ricchetti, presidente del consiglio regionale dell’Emilia Romagna, il deputato regionale palermitano Davide Faraone e il chierico Giuliano Da Empoli che al comune di Firenze è anche assessore alla Cultura.

Comincia a stare simpatico perfino a un’eminenza dell’economia come Cesare Romiti che lo vedrebbe bene alla guida del paese e che lo dichiara in un’intervista. Ma un capitolo a parte meriterebbe l’amicizia fra Renzi e Giorgio Gori, capo di Magnolia, direttore in passato di Canale 5, uomo che per Renzi non ha esitato a girare il paese al fine di creargli una base solida, quella base fatta di rapporti tra territori, sindaci, consiglieri comunali paese per paese.

È Gori che tiene il database dei renziani, più di mille sindaci, e che costituisce il nerbo dei potenziali sostenitori. Ma si sa che Gori  finisse per essere scomodo per il suo passato, per di più pochi mesi fa esce un fantasmagorico piano di Diego Volpe Pasini dove si paventava un nuovo partito di Berlusconi con Renzi premier. Il monello cambia così cavallo o meglio relega Gori al dietro le quinte, non lo espone, ma gli antepone Reggi.
L’aratro, tuttavia, era già stato tracciato da Gori senza che il Pd se ne accorgesse. Alla fine come nota qualche esponente democratico, sono gli amministratori locali ad avere i voti. «Renzi? Dice le stesse cose che dicevano Blair e D’Alema, ma vent’anni dopo», palesa Matteo Orfini,che con Renzi da barricate diverse fa un comune pressing contro il notabilato democratico.
«Il suo è un liberismo di sinistra per non parlare che dietro al nuovo (Renzi) ci sono sempre i vecchi», continua Orfini.
Elementi comuni certo ne ha con il primo Veltroni, il quale in un primo momento avrebbe simpatizzato salvo poi essere recalcitrante nei confronti di Renzi, o forse in seguito al “papello” presunto con cui i leader del Pd avrebbero lottizzato le future cariche.
Insomma, un monello è Renzi, e con i monelli si rischia sempre di averla persa, soprattutto quando i monelli si mettono a correre e i nonni (così ha definito i D’Alema, Bersani e affini) sono costretti a rincorrerli per le strade del paese, in camper o a piedi cercando di non finire come le carcasse in una vecchia carrozzeria, una vecchia carrozzeria targata Matteo…

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Carmelo Caruso