L'astensione sul Jobs Act spacca la sinistra dem
ANSA/ALESSANDRO DI MEO
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L'astensione sul Jobs Act spacca la sinistra dem

Ecco perché l'iniziativa di ieri alla Camera può dimostrarsi un boomerang che lascia piuttosto indifferenti i renziani

Contavano di far saltare il numero legale e invece il Jobs Act è passato ieri alla Camera con la maggioranza assoluta e senza voto di fiducia. Insieme a quelli di Fi, M5S, Lega e Sel, 40 deputati dem hanno lasciato l'Aula. Ma tra questi c'erano anche alcuni assenti giustificati come Enrico Letta. Il vero dissenso “organizzato” si è fermato così a 33: i 29 del documento che spiega le ragioni del dissenso alle nuove norme sul lavoro che riformano anche l'articolo 18, i 2 che hanno votato contro (Pippo Civati e Luca Pastorino) e i 2 che si sono astenuti (sempre civatiani).

Dovevano essere un'ottantina, si sono ridotti a meno della metà. E questo è già un fatto che ridimensiona la protesta dei dissidenti svelandone la debolezza. Dopo il voto una conferenza stampa volante per spiegare chi sono, “un ponte, un gancio con tutto quel mondo che rischia di non andare a votare”. Pensionati, sindacalisti, precari e disoccupati che il prossimo 12 dicembre sciopereranno con la Cgil e la Uil e che domenica hanno disertato le urne soprattutto in Emilia Romagna, ormai ex storica roccaforte della sinistra.

Chi è rimasto

Ma tra chi invece è rimasto e ha votato la nuova legge sul lavoro ci sono, oltre all'ex ministro Cesare Damiano (arrabbiato contro i colleghi disertori con i quali aveva trattato i punti della riforma fino all'ultimo minuto), il capogruppo Roberto Speranza, il presidente del Pd Matteo Orfini, anche due dei massimi rappresentati di quella stessa area del dissenso: l'ex segretario della Cgil Guglielmo Epifani e l'ex segretario democratico Pier Luigi Bersani, originario di quella Bettola dove domenica si è registrato il tasso record di astensione (77%).

A spaccarsi dunque non è stato il Pd, ma la minoranza del Pd: da una parte quelli di Area riformista (Bersani, Speranza che si turano il naso ma comunque votano a favore del governo per “disciplina di partito”), dall'altra i 29 astenuti (Gianni Cuperlo, Stefano Fassina ecc), da un'altra ancora i civatiani contrari.


Il Partito di Renzi

Per questo più che problemi al PdR (il Partito di Renzi), l'iniziativa di ieri può trasformarsi, se già non è successo, in un boomerang per la sinistra dem. Fassina e Cuperlo contano di diventare di più, “l'area del dissenso si allargherà nelle prossime settimane” è la previsione di D'Attorre. Ma i renziani fanno spallucce, convinti che invece si sgonfierà presto.

Matteo Renzi esclude qualsiasi tipo di reprimenda. Non ne ha bisogno. Per il segretario chi è uscito dall'Aula si è messo fuori da solo condannandosi all'isolamento. In effetti quando lui è entrato a Palazzo Chigi aveva contro un esercito di 150 deputati, oggi sono rimasti in 30. Invece di svuotare il centro del Pd, la sinistra dem è riuscita finora solo a staccarsi dal centro. E per il segretario-premier, che punta a conquistare segmenti di elettorato estranei alla tradizione comunista, non è certo uno svantaggio.

La domanda è in quanti voti si potrebbe tradurre il dissenso che gli astenuti di ieri pensano di rappresentare. Fassina, Cuperlo&co non hanno nessuna intenzione di uscire dal Pd. Bersani, che ieri ha detto che i legni storti si raddrizzano in casa, meno che mai. Resta Civati, che con Vendola e Landini potrebbe dare vita all'ennesimo cartello di forze della sinistra radicale e minoritaria. Con una soglia al 3% al massimo eleggerebbero qualche loro rappresentante in Parlamento.

Ma anche l'addio di Civati non è affatto scontato. Più e più volte ventilato, finora anche lui è sempre rimasto nell'ovile. Come ai tempi dell'elezione del presidente della Repubblica, della fiducia al governo delle larghissime intese - quello di Enrico Letta con Silvio Berlusconi dentro - della vicenda Alfano-Shalabajeva, del no alla sfiducia chiesta dal M5S per il caso Ligresti nei confronti dell'ex ministro dell'Interno Cancellieri e infine con la fiducia a Matteo Renzi. Oggi Civati scommette sul voto anticipato. Ma se pensa che tra lui e il suo ex amico Matteo a farsi più male sarà quest'ultimo, Pippo si sbaglia di grosso.

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Claudia Daconto