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Ius soli, ma senza demagogie

Ecco perché nella battaglia sulla nuova legge di cittadinanza entrano in gioco argomenti inaccettabili e si rischia di allargare inutilmente le maglie

Nei venticinque anni in cui è stata in vigore la mia legge la cittadinanza italiana è stata estesa a un milione e 716 mila immigrati. E ciò grazie al principio dello "ius soli" introdotto allora per la prima volta. Ius soli inteso come diritto maturato da chi ha risieduto continuativamente per dieci anni sul suolo italiano. Non importa si trattasse di adulti o di minori al compimento del diciottesimo anno di età.

Così - al netto di intollerabili ritardi burocratici - la cittadinanza è stata finora coronamento di un percorso di integrazione.


Un quarto di secolo dopo, volendo, si poteva abbreviare questo percorso riducendo a sei/sette anni la durata necessaria della residenza. Fermo restando che la cittadinanza implica l'adesione a una comunità storica, dunque è una scelta culturale e ideale individuale non una formalità burocratica da sbrigare davanti al questore o all'ufficiale di stato civile. Del resto, persino una qualunque patente, per essere rilasciata, richiede il superamento di prove teoriche e pratiche.

Già allora ci ponemmo anche il problema dei minori nati in Italia e studiammo gli esempi stranieri. Soltanto negli Usa e nelle altre nazioni americane vige lo ius soli nel significato corrente in Italia e, giustamente, gli americani non lo chiamano ius soli ma cittadinanza per diritto di nascita ("Birthright citizenship"). Lungi dal voler includere gli stranieri nella cittadinanza, il diritto di nascita all'americana per un verso poneva fine alle perduranti discriminazioni dei neri che, anche dopo l'abolizione dello schiavismo, in alcuni Stati continuavano a essere ostacolati nell'esercizio dei diritti politici. Per altro verso il diritto di nascita sanciva il primato dei nativi sui nuovi venuti (gli immigrati di prima generazione) che restavano esclusi da alcuni diritti politici passivi, segnatamente la possibilità di essere eletti presidenti.

Dunque quello che la nuova legge sulla cittadinanza introduce in Italia non è lo ius soli che esiste dal 1992, ma il diritto di nascita. Diritto peraltro temperato o ibridato con altri giacché non basta che siano nati qui. Per diventare italiani i minori stranieri devono aver compiuto un ciclo scolastico (il maccheronico ius culturae) e comunque aver risieduto in Italia per almeno cinque anni (ius soli) e avere almeno un genitore dotato di un permesso di soggiorno di lungo periodo (ius sanguinis +ius soli).

Capisco lo spirito, tuttavia resta che nessun altro Paese europeo ha maglie così larghe. In Francia e in Olanda vige lo ius soli ma non il diritto di nascita e come nella nostra legge del 1992, i minori possono acquisirla solo al compimento del diciottesimo anno. In Germania, Spagna, Regno Unito il diritto di nascita è temperato da un periodo di residenza del genitore più lungo di quello previsto dalle norme italiane. Da noi invece molti dicono: "Ma come si fa a non dare la cittadinanza ai bambini stranieri che siedono negli stessi banchi di scuola dei nostri? È incivile!".

A parte che se fosse vero sarebbe incivile anche gran parte d'Europa questo è un argomento demagogico uguale e contrario a quello di chi profetizza catastrofi. I ragazzi italiani all'estero e quelli stranieri in Italia studiano e fanno amicizia senza bisogno di cambiare passaporto. Parlo con gente di scuola e altri genitori, ho quattro figlie conosco anche i loro amici stranieri: mai percepita discriminazione, rabbia o frustrazione e, in verità, nemmeno un lancinante desiderio di diventare italiani.

Ius Soli in 90’’, io da 16 anni italiana a metà

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Claudio Martelli