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ANSA/MASSIMO PERCOSSI
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Come si è diviso il Pd sul caso Azzollini

Caos in casa dem dopo il voto contrario di 60 senatori. La spaccatura, questa volta, è anche all'interno dei renziani

Dopo la “libertà di coscienza” nel Pd arriva la “crisi di coscienza”. È scontro in casa dem sul voto in Senato, a scrutinio segreto, che ha respinto la richiesta di arresto per l'ex presidente della commissione Bilancio ed ex sindaco di Molfetta Antonio Azzollini (Ncd) accusato dalla procura di Trani di bancarotta fraudolenta e associazione a delinquere nell’inchiesta sul crac della casa di cura Divina Provvidenza.


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Fondamentali per il suo “salvataggio” si sono infatti rivelati i 60 voti dei democratici, praticamente la metà di quelli a disposizione dell'intero gruppo che solo tre settimane fa nella giunta per le immunità del Senato, aveva dato il proprio via libera all'arresto. Cosa è cambiato da allora? Intanto la possibilità di esprimere un voto segreto ma anche l'esortazione del capogruppo Luigi Zanda ai colleghi a votare dopo essersi formati “il proprio convincimento”. Appello accompagnato dalle due relazioni della giunta per le Autorizzazioni: quella del presidente Dario Stefano, favorevole all’arresto, e quella di minoranza di Nico D’Ascola secondo il quale ci sarebbero stati gli estremi per dare l’ok agli arresti domiciliari per Azzollini perché le “esigenze cautelari si fermano ad un anno fa”.

La prima a intervenire dopo il voto, chiedendo al Pd di scusarsi, è stata la vicesegretaria dem Debora Serracchiani che si è detta “piuttosto arrabbiata” per il comportamento dei senatori da lei considerato un errore, “se non nel merito almeno nel metodo: la decisione della giunta si rispetta. Se fossi stata un senatore avrei votato "sì”. Un mea culpa tardivo, secondo molti e nemmeno condiviso dal resto della dirigenza dem visto che l'altro vicesegretario, Lorenzo Guerini, ha invece assolto i senatori: “hanno letto le carte – ha spiegato Guerini in un nota - quindi se hanno votato contro “è perché non hanno rilevato dalle carte ragioni sufficienti per dare il loro assenso”.

Una frattura tutta interna al Pd renziano oltre che tra governo e sinistra dem. Se con un intervento che sta facendo molto discutere, un senatore certamente non renziano come il paladino dei diritti umani Luigi Manconi ha spiegato le ragioni del suo voto contrario all'arresto per via della presenza del “fumus persecutionis", molto critico è stato invece Gianni Cuperlo che se l'è presa sia con Zanda che con la Serracchiani. Secondo l'ex presidente dem, invitando i senatori a votare “secondo coscienza”, Zanda avrebbe di fatto sconfessato la Giunta per le autorizzazioni che si era già espressa a favore dell'arresto. Mentre la Serracchiani avrebbe dovuto parlare prima: “ha preso le distanze un attimo dopo il voto di Palazzo Madama – ha detto Cuperlo - la sua indicazione sarebbe stata più utile un attimo prima”.

Duro anche il senatore Felice Casson che ha parlato di “comportamento vergognoso per salvare la casta”. Per il neopresidente della Regione Puglia Michele Emiliano è stata scritta una “pagina triste alla Don Abbondio. Teniamoci la tessera affinché il Pd ritrovi verità e giustizia!”. Danilo Leva, avvocato e deputato Pd della minoranza, ha puntato invece il dito contro la possibilità di lasciare libertà di coscienza in quei casi, come quello riguardante Azzollini, in cui si dovrebbe decidere solo “in base a solidi principi giuridici”.

Ma a far discutere è stato soprattutto l'intervento della presidente del Friuli Venezia Giulia. L'ordine di “salvare” Azzollini sarebbe infatti arrivato direttamente da Matteo Renzi che attraverso Luca Lotti avrebbe affidato il compito al presidente dei senatori Luigi Zanda il quale, non a caso, ha reagito molto male ai dubbi di coscienza della Serracchiani. È chiaro infatti che il capogruppo non abbia fatto tutto da solo e, anche se i renziani più vicini al premier giurano sull'estraneità del governo, già alla vigilia del voto il salvataggio di Azzollini era dato quasi per scontato e si sapeva che in Aula il Pd avrebbe concesso ai suoi libertà di voto.

Nessuna indicazione ufficiale di partito, insomma, per darne una ufficiosa e ben precisa. Da parte sua il premier per ora tace. Ed è possibile che continui a farlo finché non sarà passata la bufera. Secondo i più maligni, dietro tutto, sia il voto in Aula che le critiche della Serracchiani, ci sarebbe proprio lui: Renzi il burattinaio che tira i fili del suo partito in un gioco delle parti che, come questa volta, rischia spesso di trasformarsi in un gioco al massacro.

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Claudia Daconto