Alcoa, torna la violenza operaia? Parla Mario Capanna
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Alcoa, torna la violenza operaia? Parla Mario Capanna

L'ex leader del '68 a Panorama.it: "Gli operai hanno ragione. Mi stupisco che, di tafferugli, ce ne siano stati così pochi"

Mario Capanna, ex leader del '68 studentesco italiano e oggi presidente della Fondazione dei diritti genetic i, non si scompone. La rabbia degli operai , esplosa a Roma e Cagliari, non è una sorpresa. Né ci riporta ai fantasmi di Mario Scelba o agli anni del dopoguerra. «Non mi stupisce quello che è avvenuto. Mi meraviglia semmai che, di fronte a una crisi così profonda, anche a prescindere dall'Alcoa, i tafferugli siano stati così pochi» dichiara  al telefono dal suo buen retiro al confine tra Umbria e Toscana, a suggello di un ragionamento che cerca di inquadrare la crisi sociale e l'incapacità dei sindacati di incanalare la rivolta a partire dal crac del 2008.

Parla soppesando le parole, Capanna, come quando, alla Statale di Milano, quasi mezzo secolo fa, mediava tra le varie anime della rivolta studentesca, cercando di scongiurare la deriva nichilista che avrebbe dato il via alla tragica stagione del terrorismo rosso. «Quando lo Stato risponde alle domande sociali con la polizia, o creando sempre nuove zone rosse, presenta il volto feroce del dominio e trasforma la disperazione in ribellione: no, quanto accaduto non mi stupisce» continua Capanna, nel tentativo di spiegare quanto avvenuto al ministero dello Sviluppo Economico. Tute blu contro poliziotti: scene, di certo, che non si vedevano in Italia dagli anni 60.

Lei non si stupisce dei tafferugli. Sa che le sue parole potrebbero suonare come un via libera alla violenza operaia?
No, non direi mai, con Marx, che la violenza è la grande levatrice della storia. La violenza è una brutta bestia, sempre, anche quando è difensiva.  Ce lo hanno insegnato  nel 1968 i grandi capi partigiani. Ma è facile a dirsi quando si ha lo stomaco pieno. Meno facile è dirlo ai lavoratori dell'Alcoa che si trovano a perdere, dopo aver pagato le tasse fino all'ultimo centesimo, il lavoro, l'ultimo barlume di certezza che avevano nella loro vita. Ma, vede, questa storia non inizia oggi, ma dai segnali drammatici che la politica in questi anni di crisi ha colpevolmente sottovalutato.

A quali segnali allude?
Mentre lei è io stiamo parlando, delle migliaia di miliardi di dollari   che vengono movimentati in tempo reale, il 95% è finalizzata alla  speculazione finanziaria e solo il 5% all’economia reale. Un sequestro planetario delle risorse che non produce più lavoro, ma solo disperazione e un'enorme diseguaglianza. Guardi i casi dei suicidi in Italia tra lavoratori e piccoli imprenditori o in Grecia, decuplicati dopo la crisi. O guardi l'attacco all'articolo 18, la  conquista più importante dell'autunno caldo. Non una misura per creare occupazione ma un segnale per dire: dovete ubbidire, e accettare il conto che il meccanismo speculativo vi chiederà. È chiaro che pian piano i lavoratori cominciano a ribellarsi. È questo il contesto in cui vanno inseriti gli scontri tra polizia e operai dell'Alcoa.

La novità è che i sindacati, oggi, sembrano costretti a inseguire e che gli storici partiti della sinistra sembrano ospiti non graditi nei cortei e sit-in operai.  
Ho letto anch'iole cronache di quanto accaduto a Roma. Ma vorrei fare un passo indietro. Da tempo la politica e l’economia non dicono più la verità. Il nostro Paese ha il record europeo della disoccupazione giovanile, salari e stipendi fermi al 2001, con responsabilità eguali di destra e sinistra. I profitti delle grandi imprese e dei grandi gruppi bancari sono raddoppiati di anno in anno. Abbiamo il prezzo dei caruburanti più alto d'Europa. È evidente che in queste condizioni se un lavoratore perde il lavoro, si chieda dove sia il sindacato, dove  siano i partiti che dovrebbero difenderli. La rabbia degli operai sardi è figlia di questa disperazione e di questo vuoto della politica.

La disperazione è spesso cattiva consigliera.
Certo. La rabbia può essere un elemento negativo, distruttivo, ma può anche  portare all’auto-coscienza e all’auto-organizzazione, con movimenti che rendano i lavoratori di nuovo protagonisti. Anche durante l'autunno caldo, del resto, i sindacati furono indotti a sposare le richieste operaie nel '69.

L'obiezione è scontata: non ci sono più soldi per tenere in piedi il welfare e anche le aziende sussidiate come l'Alcoa.
I soldi si trovano. Basterebbe tre misure. Una seria lotta all’evasione fiscale, quella grande. Secondo: una riduzione drastica delle spese militari. A che serve il nostro esercito? Ha presente la storia dei cacciabombardieri? Terzo punto: una riconversione industriale delle aree in crisi, da discutere con i lavoratori e i loro rappresentanti. Ma in questo Paese non se ne parla e lo Stato si presenta con il volto del dominio e degli schieramenti di polizia a protezione di sempre nuove zone rosse. È il segno del fallimento totale della politica.

Capanna, il caso dell'Alcoa è anche il caso della Sardegna. Non c'è una specificità di quel territorio che rende così complicata una soluzione del problema?
Amo perdutamente la Sardegna. Mia moglie è sarda. E penso che ci sarebbe bisogno di una sorta di stati generali della Sardegna. Con tutte le categorie produttive, i pastori, le associazioni no profit, gli ambientalisti. Un’assemblea di tre giorni per discutere di come utilizzare le meraviglie di quest’isola per i sardi: abbattendo magari le cattedrali nel deserto come Porto Torres e discutendo di come ridare un futuro a una terra stupenda come quella. Che cosa ci impedisce di farlo? Che cosa ci impedisce di sviluppare quel territorio secondo la sua naturale vocazione, come i prodotti agroalimentari o le bellezze paesaggistiche?

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Paolo Papi