Uccide il figlio (virtuale) per salvarlo dai videogame
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Uccide il figlio (virtuale) per salvarlo dai videogame

In Cina il problema dela videodipendenza è drammatico: ne soffrono 33 milioni di giovani

I videogiochi, si sa, creano dipendenza. E il governo cinese, che non ama che la popolazione si leghi troppo ad entità diverse dal Partito, sta provando da anni a insegnare a giovani e giovanissimi a utilizzare le nuove tecnologie con moderazione. Lo stesso fanno i genitori. A volte con metodi un po' bizzarri. Come nel caso di un certo signor Feng: preoccupato per la salute del figlio 23enne ormai abituato a perdere giornate intere con un gioco di ruolo online, ha assoldato all'insaputa del ragazzo un gruppo di giocatori molto esperti e ha affidato loro il compito di di uccidere l'avatar del figlio ogni volta che quest'ultimo si fosse connesso alla rete per giocare. Esasperandolo.

Per contrastare il dilagare della videodipendenza, qualche anno fa Pechino ha anche creato dei campi di rieducazione per maniaci di videogame, e il successo di questa iniziativa (unico caso in cui il sostegno a un programma di rieducazione forzata ha ottenuto immediatamente il consegno dei familiari dei partecipanti) aveva portato il governo ad annunciare che "il problema era stato risolto", grazie a una riduzione dei tassi di dipendenza del 15%.

Niente di più falso: il numero di maniaci di internet è progressivamente aumentato (oggi se ne contano circa 33 milioni, quasi tutti tutti giovani), al punto da spingere il regime a finanziare, all'interno dell'Ospedale Militare di Pechino, una clinica sperimentale, accessibile a chi vuole disintossicarsi dall'uso della rete.

I sintomi dei possibili pazienti? Depressione, nervosismo, scarsa interazione con i pari età. Disordini nel sonno, tremolio e intorpidimento delle mani. Età media? Tra i 14 e il 24 anni. Terapia? Di solito è sempre la stessa, dura massimo due settimane e costa poco meno di cinquanta euro al giorno. Prevede l'uso di medicinali, agopuntura e un'abbondante pratica sportiva. Se necessario è possibile prevedere qualche seduta con una macchina che stimola gli impulsi nervosi.

Risultati? Pochissimi. Perché il vero problema è che la mania dei videogiochi in Cina porta troppe persone a toccare eccessi impensabili in altre regioni del mondo. Si tratta, in realtà, di un problema asiatico. Perché anche nel vicino Giappone giovani (e non solo) ammettono di riuscire a passare anche 36 ore consecutive di fronte a un pachinko (un gioco piuttosto insulso che assomiglia molto a un flipper verticale). I cinesi fanno la stessa cosa. Ma scelgono gli internet point più che le sale giochi.

Non potendo contare sulle iniziative governative studiate per combattere la dipendenza telematica, e memori della terribile vicenda di Chaoyag, distretto vicino a Pechino dove a febbraio 2011 un 30enne cinese entrò in coma e poi morì dopo aver giocato ininterrottamente al computer per 72 ore, genitori sempre più preoccupati sono disposti a tutto per aiutare i figli a risolvere il problema della dipendenza dei videogiochi. Come ha fatto il signor Feng.

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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