Pakistan: nessuna gustizia per le donne sfigurate dall'acido
(AP Photo/Fareed Khan)
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Pakistan: nessuna gustizia per le donne sfigurate dall'acido

Le vittime delle violenze domestiche raccontano che preferirebbero morire piuttosto che vivere per nascondere un volto senza forma. Soprattutto quando sono ancora adolescenti

Il governo di Islamabad pare essersi stufato di essere attaccato da chi lo ritiene responsabile delle violenze che subiscono le donne pakistane all'interno dei confini nazionali (e non solo). E sembra essere deciso a punire "in maniera adeguata" ogni aggressione.

Eppure, non è così facile credere che possa cambiare qualcosa in un paese in cui chi sfigura per sempre i volti di bambine che non hanno alcuna colpa se non quella di essere donne è sempre stato punito con insignificanti multe da qualche migliaio di dollari al massimo.

Loro, le vittime senza peccato, nelle testimonianze raccolte dal Los Angeles Times raccontano di vivere sognando di tornare indietro nel tempo, e desiderando di morire di fronte alla consapevolezza che il loro più grande sogno non potrà mai diventare realtà.

Un'impressione condivisa in pieno da Zaib Aslam, una ragazzina di dieci anni che, da quando è stata "marchiata" non ha più voluto mostrare il suo volto a nessuno. Nemmeno alla famiglia.

Del giorno in cui è stata sfigurata ricorda ogni istante. Si trovava alla fermata dell'autobus vicino a casa con un gruppo di parenti in visita. Li stava salutando dopo aver trascorso la giornata in loro compagnia. A un certo punto è stata la madre Parveen Akhtar a notare che due motociclette si stavano avvicinando. E si è spaventata quando alla guida di una delle due ha riconosciuto l'ex fidanzato della figlia maggiore, Nazia.

In pochi secondo i quattro ragazzi hanno fatto scappare i parenti minacciandoli con la pistola e si sono ritrovati faccia a faccia con Akhtar e Zaib. La posizione ideale per rovesciare sui loro volti un paio di caraffe piene di acido. Acquistato per pochi centesimi a mercato del paese. "Mi sono sentita come se mi avessero gettato addosso qualacosa di rovente", ha raccontato Akhtar. "Ma quando mi sono girata verso Zaib, il suo volto non sembrava più un viso".

Faccia quasi del tutto bruciata, palpebre sigillate e cicatrici sul collo. Naso distrutto e labbra praticamente esplose. E' questo il ricordo del volto di Zaib che è rimasto impresso nella mente della madre. Che da allora ha rispettato la sua scelta di non scoprirlo di fronte a nessuno. Mai.

In una nazione in cui le donne non hanno nessun diritto, la maggior parte degli episodi di violenza domestica non viene denunciata. La Acid Survivors Foundation ritiene che nel paese vengano eseguiti almeno 150 attacchi con l'acido all'anno, ma una stima attendibile di questo tipo di soprusi è impossibile da calcolare.

E' certamente vero che il governo di Islamabad ha iniziato a interessarsi alla piaga della violenza domestica da quando quest'ultima è tornata alla ribalta internazionale grazie al documentario Premio Oscar "Saving Face" dei registi Sharmeen Obaid Chinoy e Daniel Junge. Per convincere l'opinione pubblica mondiale che il Pakistan vuole "proteggere le vittime innocenti" di una barbarie che avrebbe lasciato anche loro senza parole, il governo ha approvato a dicembre 2011 l'Acid and Burn Crime Bill 2012 per punire gli aggressori in maniera esemplare. Con condanne che oscillano tra i 14 anni di reclusione e l'ergastolo e sanzioni fino a 11mila dollari.

Eppure, i volti sfigurati di donne e bambine dimostrano che, grazie all'appoggio di giudici e polizia, i carnefici pakistani continuano a farla franca. Come nel caso di Akhtar e Zaib. Colpite per permettere a Dastagir, l'ex fidanzato della figlia maggiore Nazia, di sfogare la sua rabbia sulla donna che aveva autorizzato il matrimonio di quest'ultima con un tecnico informatico di 25 anni. Peccato che, prima che queste nozze fossero celebrate, Nazia era stata ufficialmente promessa in sposa a Dastagir. Che, sposato e con due figlie a carico, il giorno del matrimonio ha preferito non presentarsi. Ma lui è un uomo. E in quanto tale può permettersi di fare quello che vuole. Persino di serbare rancore nei confronti di chi, dopo essere stata umiliata, ha tentato di rifarsi una vita.

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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