La Cina chiude i campi di lavoro forzato
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La Cina chiude i campi di lavoro forzato

I primi verranno dismessi nel Guangdong, ma nessuno sa dove verranno trasferiti i dissidenti

Possibile che la Cina sia davvero pronta a chiudere quei paradisi di tortura fino a oggi così utili per smorzare il dissenso? Quando Pechino aveva annunciato, a gennaio scorso, che nel 2013 avrebbe potuto essere approvata una normativa che avrebbe imposto la chiusura dei laojiao, vale a dire dei campi di rieducazione attraverso il lavoro, pochissimi avevano creduto che il Partito fosse pronto a rinunciare a quei centri di terrore inaugurati da Mao Zedong ben 56 anni fa che si erano dimostrati così utili per punire, o meglio, rieducare, chiunque avesse commesso anche un piccolo errore.

E invece questa lunghissima e tragica tradizione di abusi e prevaricazioni sembra essere finalmente giunta al capolinea. Perché anche se un piano nazionale che stabilisce l'ordine in cui tutti questi centri verranno chiusi ancora non esiste, è certamente confortante, oltre che lodevole (fino a prova contraria, naturalmente), vedere che una regione come quella del Guangdong, da cui sono partiti tutti gli esperimenti più innovativi portati avanti dalla Repubblica popolare, dalle Zone economiche esclusive, alle aree di libero scambio e alle zone finanziarie esclusive, abbia finalmente annunciato la chiusura dei capi di lavoro della regione e, addirittura, la liberazione dei detenuti.

Tutto questo succederà a Guangzhou, il capoluogo di questa regione meridionale che confina con Hong Kong, entro la fine dell'anno. I condannati liberati dovrebbero essere più o meno un centinaio, e va sottolineato che è almeno da marzo che il centro non ne accoglie di nuovi. Quindi insomma, almeno nel Guangdong qualcosa sta cambiando davvero. O almeno così sembra.

Certo, in un paese in cui le persone "da rieducare" sono almeno 150mila la liberazione di cento detenuti potrebbe apparire insignificante. Tuttavia, il fatto che le prime sperimentazioni siano state fatte proprio nel Guangdong potrebbe essere interpretato come un segnale positivo. Pechino potrebbe infatti essersi presa un po' di tempo per valutare le conseguenze della chiusura di un laojiao, per concentrarsi solo in un secondo momento sull'elaborazione di un piano nazionale per gestire la loro chiusura.

Una strategia, questa, che potrebbe persino risultare credibile, se non stessimo parlando della Repubblica popolare cinese! I campi di lavoro sono stati usati fino ad oggi sia per punire i criminali, sia per far rapidamente sparire dalla circolazione (presunti) dissidenti pericolosi. Ma se i campi di lavoro verranno chiusi, che fine faranno i dissidenti? Finiranno in qualche prigione speciale come quella in cui è stato (forse) rinchiuso Bo Xilai? Verranno inviati in nuovi campi "speciali" di cui magari ignoriamo persino l'esistenza? Forse, ma non per questo si può sminuire l'impegno cinese a chiudere questi centri di tortura. Nella consapevolezza che per quel che riguarda i diritti umani la Cina ha ancora molti, moltissimi passi avanti da fare.

 

 

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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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