Cina: attaccato dai media, il Partito abolisce i campi di lavoro forzato
EPA/ALEX HOFFORD
News

Cina: attaccato dai media, il Partito abolisce i campi di lavoro forzato

Pechino cambia strategia e accoglie le istanze di chi protesta. In maniera indiretta

Se il buongiorno si vede dal mattino, il 2013 rischia di trasformarsi in un anno di pericolosissime proteste per l'intera Cina. Pericolose perché, per la prima volta, a scendere in piazza non sono più contadini e operai, alle cui rimostranze il governo può (ancora) permettersi di rispondere con promesse che si sa non verranno mai mantenute, ma categorie più problematiche: giornalisti e cittadini di Hong Kong. I primi impegnati in uno sciopero per protestare contro le politiche censorie. I secondi in una battaglia all'ultimo sangue per far cadere CY Leung, il neoeletto Chief Executive (il capo del governo della Regione Amministrativa Speciale) troppo legato a Pechino, che con i suoi ultimi provvedimenti ha messo seriamente in discussione l'autonomia dell'ex colonia britannica.

La protesta dei giornalisti è partita dalla redazione del Southern Weekly, settimanale del Guangdong e tra i più autorevoli della Cina, in cui vende più di un milione e mezzo di copie. Tutto è cominciato quando la rivista, nota per le sue inchieste irriverenti e le sue battaglie per la libertà di stampa, ha deciso di chiudere il 2012 pubblicando una lettera aperta in cui veniva chiesta la rimozione del capo della propaganda della provincia. Colpevole di aver costretto il settimanale ad eliminare un articolo sulla necessità di far approvare alla Cina una riforma costituzionale per sostituirlo con un pezzo che esaltava il Partito comunista e la sua nuova leadership.

Da quando i giornalisti del Guangdong sono entrati in sciopero, centinaia di lettori e simpatizzanti sono scesi in strada per manifestare la loro solidarietà. Innalzando cartelli con la scritta "vogliamo la libertà di stampa e la democrazia" che stanno preoccupando molto Pechino.

A Hong Kong, invece, migliaia di persone hano marciato per chiedere le dimissioni del nuovo capo del governo, colpevole non solo di non essere in grado di portare a termine quella transizione democratica che l'isola chiede da tempo, ma di averle addirittura fatto compiere parecchi passi indietro. I numeri della protesta restano come sempre un'incognita: gli organizzatori della marcia sostengono di aver superato il tetto delle 130mila presenze, mentre la polizia locale fa riferimento a un massimo di 26mila partecipanti.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso è stata l'ammississione di aver commesso un abuso edilizio (lo stesso motivo che, durante la campagna elettorale, ha portato all'uscita di scena di Henry Tang, candidato sempre pro-Pechino, ma più vicino alla corrente dei riformisti che a quella dei conservatori, posizione che gli aveva permesso di guadagnare il consenso anche della popolazione locale). In realtà sono altri i motivi che hanno spinto Hong Kong a ribellarsi contro Leung: il suo desiderio di puntare sull'educazione patriottica, la promessa (non mantenuta) di risolvere il problema delle gestanti della Repubblica popolare che affollano gli ospedali dell'isola, e quella di mantenere i controlli alle frontiere (che ha invece significativamente ridotto).

A Pechino le proteste non piacciono, questo si sa. Eppure, anche se il Partito è consapevole che lanciare un segnale di apertura sarebbe controproducente perché potrebbe essere interpretato come un segno di debolezza, qualcosa va cambiato. E quindi ufficialmente continua a fare la voce grossa su queste due questioni, dichiarando che "il principio basilare del controllo assoluto del Partito sui media non può essere in alcun modo modificato", o che "un rappresentante già eletto non può essere rimosso dal suo incarico perché la popolazione lo desidera". Ma lancia segnali di rinnovamento, anche molto importanti, su altri fronti. Come la possibile cancellazione entro l'anno in corso dei campi di rieducazione attraverso il lavoro, i laojiao, inaugurati da Mao 56 anni fa. Scelta che, se confermata, potrebbe finalmente mettere fine a una lunghissima e tragica tradizione di abusi e prevaricazioni.

I più letti

avatar-icon

Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

Read More