La deadline dell'Occidente al regime siriano
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La deadline dell'Occidente al regime siriano

Dopo la telefonata tra Obama e Cameron, l’attacco è più vicino: le quattro opzioni militari

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Quaranta minuti, quarantotto ore, dieci giorni. Sono questi i numeri legati al punto di non ritorno in Siria. Quaranta minuti è durato il colloquio tra il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, e il premier britannico, David Cameron, sull’eventualità di un attacco. Quarantotto ore è il tempo entro il quale gli ispettori ONU inviati a Damasco daranno una risposta circa l’uso o meno del gas sulla popolazione siriana da parte delle forze lealiste. Dieci giorni, forse meno, è il tempo tecnico per portare l’attacco punitivo dell’Occidente al regime di Assad.

Entro mercoledì, dunque, conosceremo le conclusioni degli ispettori delle Nazioni Unite - già al lavoro in Siria - e forse capiremo se e chi ha usato il gas, causando quelle strane morti che abbiamo visto quasi in diretta nei “video del terrore” diffusi in rete dalle stesse vittime, e che hanno interessato alcuni quartieri di Damasco (Irbin, Jobar, Zamalka ed Ein Tarma).

Dopodiché potrebbero spalancarsi davvero le “porte dell’inferno”, secondo la definizione coniata un decennio fa in Palestina per annunciare il redde rationem in Medio Oriente. Già, perché se le conclusioni dell’ispezione ONU dovessero confermare che effettivamente è stato fatto uso di gas (di tipo Sarin, probabilmente), l’attacco dell’Occidente - leggi NATO, l’ONU non acconsentirà mai - sarebbe ineluttabile.

Le reazioni internazionali all’intervento

Barack Obama e i suoi ghost writer non devono aver pesato abbastanza bene le parole, al tempo in cui definirono la “red line” di un possibile intervento proprio sull’uso di armi chimiche. Perché adesso che si palesa forse un uso scellerato di armi non convenzionali, Washington è prigioniera di se stessa, legata mani e piedi a quella dichiarazione e a quella che potrebbe essere una guerra diversa (nel senso di peggiore) dalle altre.

Oltretutto, Francia e Gran Bretagna si mostrano ancor più intransigenti della Casa Bianca e, anzi, sono proprio loro a spingere gli Stati Uniti dentro il conflitto, convinti che in Medio Oriente l’Occidente debba svolgere ancora oggi un ruolo di giudice supremo (e accaparrarsi le commesse economiche che contano). La lunga telefonata tra Londra e Washington di poche ore fa non fa ben sperare per le sorti del conflitto siriano. Oggi, in Giordania, si riunisce quello che appare sempre più come un gabinetto di guerra (anche se l’incontro era fissato da giugno) e di cui fanno parte 10 Paesi: USA, Regno Unito, Francia, Giordania, Canada, Italia, Germania, Arabia Saudita, Qatar, Turchia.

Russia e Cina considerano la possibilità di un intervento come “estremamente grave” e sarà interessante osservare l’atteggiamento che terrà Mosca, nel caso di un attacco massiccio. Più pratico appare il governo israeliano: Benjamin Netanyahu è nella sua fase più lucida e già pensa a un “piano Marshall” di cooperazione economica da applicare in tutta la regione mediorientale, per contenere i vicini rumorosi ed evitare di trovarsi nemici alle porte.

L’attacco e le  forze in campo

Nell’ostinata convinzione che gli USA debbano continuare a difendere quei princìpi di democrazia e libertà in tutto il pianeta, Obama potrebbe dunque essere costretto a premere il bottone rosso e intervenire pesantemente. Come?

Le opzioni militari sono note da più di un anno ma un suggerimento più preciso proviene dalle parole del Segretario alla Difesa americano, Chuck Hagel, il quale ha annunciato che quattro navi da guerra stanno raggiungendo il Mediterraneo: si tratta della sesta flotta della US Navy, che ha nel Mediterraneo quattro incrociatori equipaggiati con quei missili Tomahawk (gli stessi che abbiamo già visto in azione in Libia, per dire).

Gli USA dispongono, inoltre, di due portaerei a propulsione nucleare capaci di trasportare  caccia (F-15 e F-16), Awacs (aerei radar) e cacciabombardieri e nell’eventualità di un attacco terrestre - al momento remota - sono state allertate anche cinque portaerei su cui sono allocati elicotteri da sbarco. Anche un sottomarino (nucleare) si aggirerebbe nelle profondità del Mare Nostrum.

Per quanto riguarda i britannici - i quali saranno con ogni probabilità al fianco degli Stati Uniti sin dalle prime fasi dell’operazione - la base di Akrotiri (Cipro) è da giorni in fase di intensi preparativi: è da qui che decolleranno i Tornado inglesi per bombardare la Siria, mentre dal mare potrebbero ingaggiare il conflitto sia il sottomarino Trafalgar, poiché armato anch’esso con Tomahawk, sia le due portaerei agli ordini di Sua Maestà.

Sul fronte opposto, il presidente della Siria, Bashar Assad, non appare in grado respingere la pioggia di missili anglo-americana e dispone di soli aerei Mig (circa 150) per lottare nei cieli sopra Damasco. Ciò nonostante, la sua contraerea pare essere meglio equipaggiata di quanto si credesse, soprattutto perché versatile e mobile, e dunque non facilmente intercettabile dai missili cruise. Molto dipenderà dal sostegno che vorrà offrirgli la Russia, che già in passato ha fornito buona parte degli armamenti siriani e che, adesso, potrebbe continuare a sostenere Assad: ad esempio, con le famose batterie di SA-300 inviate a suo tempo a Damasco, cosa che alcuni mesi fa fece infuriare non poco gli Stati Uniti, data la pericolosità e l’efficacia di questi sistemi missilistici (sono capaci di affondare anche una nave).

Si profila, dunque, uno scenario già visto nelle precedenti operazioni che hanno coinvolto gli anglo-britannici: un massiccio bombardamento via mare, poi via cielo nella speranza che il regime cada sotto la pioggia di bombe. Ma la vicenda del Colonnello Gheddafi in Libia ci ha insegnato che questo modus operandi non è risolutivo, senza un successivo intervento da terra per l’assalto finale. Ma, stavolta, il rischio che ci s’infili in una guerra dagli esiti (e dai protagonisti) imprevedibili non è poi così remoto.

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Luciano Tirinnanzi