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Guerra allo Stato Islamico: il ruolo dell’Italia

Mercoledì il presidente americano Barack Obama dovrebbe annunciare i piano dell’attacco contro i jihadisti sunniti che terrorizzano Iraq e Siria. L’Italia avrà un ruolo attivo. Ma siamo pronti a entrare in guerra?

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“L’Italia farà parte della ‘core coalition' per l'Iraq” per contrastare l’avanzata dello Stato Islamico in Medio Oriente, come richiesto dal segretario di Stato americano, John Kerry.
Sono le esatte parole pronunciate dal presidente del Consiglio italiano, Matteo Renzi, al termine del vertice NATO svoltosi il 5 e 6 settembre a Newport, in Galles.

 

Quello che doveva essere l’appuntamento più importante per Washington, durante il quale la Casa Bianca avrebbe voluto riscattare la propria immagine all’estero - oggi indebolita da troppi tentennamenti, soprattutto sul dossier mediorientale - si è risolto in un “poco di fatto”.

 

Questo anche grazie all’ennesimo colpo messo a segno dalla diplomazia russa a poche ore dall’inizio del vertice britannico, che ha reso possibile la firma del il cessate-il-fuoco tra il governo di Kiev e le autoproclamate repubbliche di Donetsk e Luhansk, scippando per l’ennesima volta alla Casa Bianca il ruolo da protagonista e togliendo al vertice la materia principale su cui discutere.

 

Fatto che ha reso vane le minacce americane a Mosca, ha disinnescato la retorica interventista della NATO e, almeno per il momento, ha tolto dall’imbarazzo l’Europa Unita nel dover definire più aspre sanzioni contro Mosca.

 

La coalizione internazionale
In attesa di chiarire la posizione italiana sul delicato tema ucraino, quel “poco di fatto” a Newport consiste dunque nella decisione dell’Alleanza Atlantica di raccogliere una coalizione internazionale sotto l’egida delle Nazioni Unite. A farne parte saranno: Stati Uniti, Regno Unito, Francia, Australia, Canada, Germania, Turchia, Italia, Polonia e Danimarca.

 

Insieme, questi Paesi hanno concordato una strategia per aiutare gli alleati che già fronteggiano sul campo i jihadisti sunniti in Iraq e Siria, e per concertare una campagna aerea coordinata al fine di “annientare e distruggere” lo Stato Islamico. Parola di Barack Obama.

 

Tornando al vertice, il segretario di Stato americano, John Kerry, ha sottolineato infatti come ormai non esista più “alcuna politica di contenimento” per frenare il gruppo di Al Baghdadi.  Dunque, la sola via possibile è cancellare lo Stato Islamico dalla faccia della terra, perché altrimenti “alla fine questo cancro si ritorcerebbe contro di noi”.

 

Per evitare quei “boots on the ground” che i cittadini americani mal digeriscono - soprattutto in luoghi infausti come la Mesopotamia - il piano studiato dal Pentagono e presentato al vertice NATO è, al momento, lasciare che i combattimenti sul terreno restino affidati alle forze di sicurezza irachene, alle milizie curde Peshmerga e ai ribelli siriani moderati. Mentre vi è grande incertezza circa un intervento diretto o indiretto di Iran, Arabia Saudita e Giordania.

 

Il ruolo da giocare per l’Italia
Proprio in questo campo, l’Italia “ha un ruolo da giocare”, come disse mesi or sono Federica Mogherini, Alto Rappresentante in pectore per gli Affari Esteri dell’Unione Europea. “Il conflitto - queste le sue parole - ha radici all'interno del Paese, ma ha fortissime connessioni con quello che succede intorno, in Siria, Iran, Libano e nei Paesi del Golfo. L’Italia può giocare un ruolo nel coinvolgere i diversi attori regionali”.

 

Dunque, sembra di capire, oltre alle note basi italiane da cui possono decollare i jet dell’Alleanza Atlantica per bombardare (vedi Sigonella), l’Italia interpreterebbe il ruolo chiave dell’intermediario. Anche perché il nostro Paese non ha sufficienti risorse economiche da impiegare più attivamente in una guerra. Né è trapelata ancora un’informazione utile a capire la nostra posizione sulla fornitura diretta di armi all’asse contro Stato Islamico.

 

I militari dovrebbero svolgere giusto la raccolta d’informazioni e gestire le attività di spionaggio con Paesi come la Giordania e la Turchia, promuovendo la ricerca di alleanze strategiche. Ad esempio quella con il Regno saudita, mentre il coinvolgimento della Repubblica Islamica dell’Iran resta un’incognita. Possibile?

 

Le incertezze della guerra al terrorismo
Tutto questo per il momento resta sulla carta ed è un esercizio puramente teorico. Piuttosto, viene spontanea una domanda: dato che la minaccia dello Stato Islamico è credibile, dato che il gruppo jihadista sunnita ha già messo in guardia l’Occidente dall’attaccare l’Iraq e stante il fatto che il premier Renzi ha già assicurato la partecipazione dell’Italia all’interno della coalizione, il governo ha predisposto un piano strategico per la sicurezza nazionale, che ci metta al riparo da eventuali ritorsioni sul nostro territorio?

 

Esiste un protocollo per rinforzare la difesa e la sorveglianza di aree sensibili come metropolitane, stazioni ferroviarie, aeroporti, eccetera? Siamo preparati a una guerra come questa, dove il nemico è difficilmente riconoscibile e agisce attraverso piste diverse da quelli sinora battute e secondo logiche non convenzionali?

 

Pur se le minacce restano sotto il livello di allerta massima, anche qualora fossero solo ipotesi di scuola, tutto ciò non ci autorizza a sottovalutare il pericolo d’imbarcarsi in una missione molto rischiosa e la cui minaccia non è confinata solamente in territorio iracheno o siriano.

 

Mercoledì il presidente americano Barack Obama definirà il piano d’attacco. Il Regno Unito ha già preso contromisure in sede parlamentare e varato leggi speciali che, tra le altre cose, danno alle Forze dell’Ordine la possibilità di confiscare i passaporti ai sospetti terroristi, secondo la logica di “un approccio severo, intelligente, paziente e complessivo per sconfiggere la minaccia terroristica alla radice”, come ha sottolineato lo stesso premier britannico David Cameron.

 

E l’Italia, cosa farà? Siamo davvero pronti a entrare in guerra? Dal momento che c’imbarcheremo in quest’avventura, il nostro governo certamente avrà ponderato opportunità e rischi. Ma una risposta pubblica a tali quesiti, sarebbe comunque opportuna.

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Luciano Tirinnanzi