Le guerre perdute degli americani
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Le guerre perdute degli americani

Vietnam, Somalia, Afghanistan, Balcani: i conflitti locali in cui sono state impegnate le truppe statunitensi hanno sempre avuto esiti contrastanti. Lo speciale sulla guerra in Siria

Quante sono le guerre americane e quante gli Stati Uniti ne hanno vinte? La superpotenza di decenni della guerra fredda è sopravvissuta felicemente alla pace armata del Muro con l’Unione Sovietica. Tuttavia, anche allora la guerra più significativa, quella del Vietnam, vide la sconfitta degli Stati Uniti. La forza delle armate statunitensi, la schiacciante superiorità della loro tecnologia bellica, l’imponente dispiegamento di mezzi, non sono mai bastati a portare a casa la vittoria. E in Siria ci sono tutte le premesse per una disfatta più cocente di altre che gli Stati Uniti hanno subìto. Anche perché le guerre non si vincono solo sul terreno di battaglia, ma soprattutto nelle conferenze di pace che le seguono o le accompagnano.

Si citano sempre i casi del Vietnam e del Golfo (in tutte le sue declinazioni e cioè prima e seconda guerra del Golfo, e Afghanistan). Si dimenticano tanti altri conflitti nei quali gli Stati Uniti hanno infelicemente inviato le loro truppe o fatto volteggiare i loro micidiali velivoli. Alcuni li ricordo per averli seguiti come giornalista. Una premessa: considero giuste le guerre americane, l’obiettivo era quello di difendere i valori, l’integrità, gli stili di vita, i confini del “mondo libero”. Insomma, senza retorica, gli Stati Uniti sono stati generalmente dalla parte del giusto non perché a sostegno dei giusti, ma perché erano gli Stati Uniti. Eravamo noi.

Però va detto che i risultati sono stati spesso infelici. Qualcuno ricorda la Somalia? Fu la prima volta, di fatto, che s’intervenne in un paese in preda alla guerra civile con lo scopo di difendere la popolazione, l’intervento era stato preceduto da un forte dibattito sul diritto all’ingerenza umanitaria. Si intervenne, credo giustamente, ma la coalizione dovette poi abbandonare il campo facendo precipitare di nuovo la Somalia nell’anarchia e nelle faide dei “signori della guerra”. Per di più, emerse il problema di punti di vista diversi, se non opposti, nell’approccio al conflitto e alla popolazione dei partecipanti all’alleanza (l’Italia, in questo caso, in polemica con gli Stati Uniti).

Qualcuno ricorda la crisi iraniana riportata recentemente alla memoria dal bel film “Argo” di Ben Affleck? Era il 1979, mi trovavo negli Stati Uniti, tutti gli americani soffrivano di una sindrome che potrebbe definirsi la sindrome della “caduta dell’Impero”. Gli ayatollah avevano dato scacco matto alla superpotenza. Jimmy Carter perse la faccia con il catastrofico blitz per liberare i diplomatici in ostaggio. Una missione emblematica.

Nel Golfo, è vero che Saddam è stato defenestrato dal contrattacco alleato, ma alla vittoria sul terreno non ha corrisposto quella politica. L’Iran è cresciuto come problema. L’integralismo islamico ha preso piede e si è drammaticamente diffuso. Fino all’attacco militare alle Torri Gemelle. In Afghanistan la guerra è tutt’altro che vinta, in generale in Medio Oriente la pace resta un miraggio. C’è poi la parentesi delle guerre jugoslave. In quel caso, l’Occidente sarebbe dovuto intervenire ben prima che nel Kosovo, almeno al tempo dei lager in Bosnia. E il Kosovo stesso è tutt’altro che un problema risolto.

Per arrivare alle primavere arabe, climaticamente così gelide da rendere anche plasticamente il contrasto tra le buone intenzioni (si fa per dire) dell’Occidente e degli Stati Uniti, per esempio nel discorso del Cairo di Obama alla riconciliazione con l’Islam, è il risultato di una instabilità che mette a repentaglio il nostro mondo. La Libia è un esempio negativo. Sarebbe stato meglio lasciare Gheddafi al potere. E Mubarak in Egitto.

Del resto, le guerre oggi sono anche altre. Quelle silenziose dell’economia, che fa, forse, più vittime. Solo la Francia ha fatto peggio degli Stati Uniti, e solo l’Europa, rispetto all’America, ha dimostrato di essere più incerta nelle sue missioni. Rispetto ai modi. E agli obiettivi.

Anche perché l’Europa non esiste. A differenza degli Stati Uniti.   

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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