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Reato di stupro prescritto: ma chi paga?

Le parole non restituiranno sollievo alla 27enne che 20 anni fa fu abusata, ma la sanzione dei responsabili. Di chi ha omesso, ignorato, e non ha vigilato

Per la giustizia negata non c’è altra soluzione che accelerare i processi e far valere il principio che chi sbaglia paga. Anche il magistrato negligente o lavativo. Tutto il resto è retorica: proposte di grande riforma del sistema giudiziario, ipotesi illiberali come quella di rendere infinito il tempo della prescrizione, scuse pubbliche prive di conseguenze concrete che servono soltanto a lavare le coscienze.

Ben venga la prescrizione per l’uomo condannato in primo grado a 12 anni per aver abusato della figlia (che di anni ne aveva 7) della convivente; ben venga la notizia dei 20 anni di processo che non sono bastati a restituire, se non la serenità, almeno la giustizia a una donna che oggi ha 27 anni e dice di voler “solo dimenticare”; ben venga il proscioglimento del (dobbiamo dire presunto?) violentatore, se questa ennesima sconfitta della giustizia italiana servirà a qualcosa. Per esempio, a evitare in futuro nuove sentenze di prescrizione di reati che se non puniti “fanno ribollire il sangue”, come ha sollecitamente dichiarato con espressione suggestiva il ministro della Giustizia, Andrea Orlando, annunciando l’invio di ispettori.

E ben vengano le scuse agli italiani del giudice della Corte d’Appello di Torino, Paola Dezani, che ha dovuto emettere “in nome della legge” la sentenza, prendendo atto che il reato era prescritto: troppi dieci anni per il processo di primo grado (1997-2007) più altri nove per fissare l’udienza in appello. Ben venga la denuncia del presidente della Corte d’Appello, Arturo Soprano, che parla di “ingiustizia per tutti” e vittima “violentata due volte, la prima dall’orco, la seconda dal sistema”. Eppure.

Il Sistema ha un volto. Un nome. Altrimenti sono tutti colpevoli e nessuno è colpevole. E anche questo è il Sistema. Che si difende auto-accusandosi.

Il dubbio che qualcosa cambi davvero è forte. Perché in Italia manca del tutto il concetto di responsabilità, che è sempre personale ed è quella per la quale meriti e demeriti producono premi o sanzioni. Succede invece che il buon giudice continui a svolgere il proprio lavoro in silenzio, smazzando sentenze e trattando equamente le cause che trova sul tavolo, sforzandosi di leggere le carte prima di prendere decisioni. E capita poi che vengano emesse sentenze prima ancora di ascoltare le parti in udienza: la condanna pre-confezionata e “per errore” firmata e controfirmata. Per dire quanto la giustizia possa essere veloce: la sentenza precede l’udienza. Svista che smaschera anch’essa un Sistema.

C’è una lacuna nello scandalo dello stupro pedofilo impunito. Un difetto, forse, nella comunicazione dei magistrati. Un dubbio, un rovello anzi, che deve assillare chiunque non si accontenti di denunciare le imperfezioni del Sistema. Il dubbio è che la vittima di 7 anni che oggi ne ha 27 e vuole solo dimenticare abbia tragicamente ragione.

Primo, perché se anche la giustizia fosse arrivata in tempo (nei termini) sarebbe stata comunque tardiva. È ragionevole che si debbano aspettare 17-18 anni per vedere condannato il proprio violentatore o perché un uomo accusato di violenza venga processato? Siamo un Paese incivile.

È di ieri la notizia che a Rio de Janeiro sono stati condannati a 15 anni di carcere due autori della violenza di gruppo su una sedicenne commessa lo scorso maggio. E parliamo di Brasile e favelas. Non di Alessandria o Torino.

Secondo, perché il moltiplicarsi di scuse dei magistrati (pur benvenute e doverose) e dichiarazioni di quanti hanno la responsabilità della “giustizia” nascondono una diffusa ipocrisia. Qui non sono le parole a poter restituire uno straccio di riparazione alla 27enne che vent’anni fa fu abusata, ma la sanzione dei responsabili. Di chi ha omesso, ignorato, sottovalutato. Di chi ha lavorato male e provocato un danno con la sua negligenza. Di chi non ha vigilato.

La sanzione può anche essere semplicemente un fermo alla carriera, un trasferimento, una censura. La magistratura gode di benefici economici (e non solo) in ragione della sua autorevolezza. Che oggi è ai minimi nell’opinione pubblica. E la sua autonomia, invece, rischia di esser vista come arroccamento corporativo e difesa dei privilegi. Se nessuno, alla fine e dopo tante belle parole, non pagherà per la denegata giustizia o per l’errore giudiziario (le carceri ne sono piene), avrà sempre ragione il presidente della Corte d’Appello di Torino, che ha scelto male le parole quando ha detto che la 27enne che vuole solo dimenticare è vittima due volte: dell’orco e del sistema. E la vittima rischia così di essere vittima non due ma tre volte, vittima dell’ipocrisia di quelli che puntano l’indice contro un ente inafferrabile e irresponsabile (il Sistema) invece di volgere lo sguardo al proprio fianco, nell’ufficio accanto, tra i colleghi, e additare i colpevoli, i veri ir-responsabili, con nome e cognome.

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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