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Perchè l'Italia è un Paese che non protegge le donne

La Corte Europea di Strasburgo condanna la giustizia lenta che non ha protetto una donna poi uccisa dal marito. Questione di pregiudizi? Forse si

La Corte Europea di Strasburgo ha condannato l’Italia per la lentezza della giustizia e per la conseguente mancata protezione di una donna che aveva denunciato il marito violento, senza riuscire a impedire che lui tentasse di ucciderla e le uccidesse il figlio di 19 anni che aveva provato a difenderla.

L’Italia non protegge le donne. Semplice. Colpa della mala-giustizia, ma forse anche di una cultura che stenta ad affermarsi. La cultura prevalente sembra a volte mettere sullo stesso piano vittima e aggressore, donna e stalker/violentatore. Con un risultato paradossale: il giustizialismo dei mega-processi di corruzione, che non di rado si risolvono in raffiche di assoluzioni (sempre molti anni dopo) stride con una giustizia lenta o cieca che lascia a terra i più indifesi e più fragili. Come le donne violentate.

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Da un lato il colpevolismo, dall’altro l’eccessiva tolleranza. E magari, a far pesare la bilancia da una parte, la scarsa sensibilità verso le donne… Qualche indizio di questa schizofrenia giudiziaria arriva dalle cronache degli ultimi giorni.

In Italia si può finire in carcere per 21 anni essendo innocenti. È successo ad Angelo Massaro, che per 7 anni non ha neanche potuto vedere i suoi figli e una volta ottenuta la revisione del processo e l’assoluzione, ha continuato a dover osservare vecchie misure di sicurezza che la logica vorrebbe compensate dall’ingiusta galera.

Ma in Italia i magistrati sanno anche essere molto garantisti, al punto di suscitare proteste e accuse di buonismo. Come a Firenze, dove si può pedinare una ragazza dal suo luogo di lavoro, un pub, fino a casa, saltarle addosso, stringerle al collo un laccio, malmenarla, tentare di violentarla e, una volta arrestati, uscire dopo 48 ore avendo soltanto l’obbligo di passare la notte in casa.

Un altro caso di giustizialismo: in Italia si può vedere respinta la richiesta di libertà con una sentenza che precede l’udienza, stesa e controfirmata prima di ascoltare le ragioni della difesa.

E un caso di tolleranza. Si può rapire e violentare una donna, massacrarla a calci, pugni e sassate, nascondere il corpo e, a detta dell’accusa, tentare ancora di abusarne, eppure vedersi tramutata la condanna dall’ergastolo a 20 anni “grazie” a una perizia psichiatrica che attesta la semi-infermità mentale.

Tutto questo succede, è successo, in Italia. Da un lato un’approssimazione ingiustamente colpevolista che non genera scandalo né sanzioni. Dall’altro un’assenza di rispetto per le vittime come denunciato anche dai parenti, e una predisposizione a mettere sullo stesso piano aggredita e aggressore.

L’innocente dei 21 anni in galera è stato condannato per un’intercettazione male interpretata. Una frase in dialetto che accennava a un “morto” che in realtà era un rimorchio, non un cadavere.

C’è invece un’attenzione estrema, per usare un eufemismo, nella decisione di rimettere in libertà dopo 48 ore l’aggressore di Firenze. Subito dopo il fermo, alle forze dell’ordine che lo avevano arrestato su indicazione della ragazza, lui, un indiano di 28 anni, aveva confessato che l’aveva seguita perché voleva “scop…”. Ma davanti al giudice delle indagini preliminari la versione è cambiata. L’aggressore ha sostenuto di essere ubriaco, di aver inseguito la ragazza perché pensava che gli avesse rubato un cellulare, e di non aver mai detto che voleva “scop…”, che era solo un equivoco dovuto al fatto che non parla bene l’italiano.

Versione credibile, secondo il GIP. Risultato: l’aggressore è fuori, a piede libero, soltanto con l’obbligo del pernottamento come misura di sicurezza. Il punto è che mancherebbe la prova della violenza sessuale. Come se non lo fosse seguire una ragazza, aggredirla stringendole il collo in un cappio, ed essere costretto alla fuga solo per la disperata reazione di lei, pratica di arti marziali.

Mi chiedo: e se fosse che in questo Paese c’è ancora un pregiudizio (lo dico da non femminista) nei confronti della donna aggredita e violentata che viene equiparata nel trattamento, lei vittima, all’aggressore e chiamata a dare prova di tutto, sottoposta nei processi a interrogatori spesso privi di rispetto e delicatezza, e a perizie invasive mentre, nonostante le evidenze, nei confronti dei presunti aggressori si usa al contrario una delicatezza da manuale di garantismo e addirittura si consente che circolino liberi, pronti a commettere nuove violenze, magari verso la stessa donna che li ha denunciati e si aspetterebbe dallo Stato protezione?

È solo un caso che quasi tre donne su quattro vittime di femminicidio, secondo l’accusa delle associazioni anti-violenza, avessero già denunciato l’assassino? E qual è la percentuale di quelle aggredite o costrette a vivere nel terrore perché nessuno, nelle istituzioni, è in grado di garantire la loro sicurezza pur sapendo che sono quotidianamente nel mirino?

Flash Mob contro la violenza maschile sulle donne. Roma, 20 novembre 2008 (Credits: Roberto Mobaldo/ LaPresse)

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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