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ANSA FRANCO CUFARI/ DBA
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Morire di fatica: se il caporalato uccide ancora

Paola Clemente è morta per le troppe ore al caldo in Puglia a lavorare. Una vergogna. Ma ora la legge consente di punire i colpevoli

Si può morire di fatica. Lo diciamo in tanti, spesso, anche se per qualcuno è solo un modo di far pesare il proprio sacrificio, dare più valore al proprio lavoro. Eppure, di fatica si muore davvero. È successo a Paola, bracciante agricola di 49 anni di San Giorgio Jonico nel Tarantino, il 13 luglio 2015. E per quella morte oggi sono in carcere 6 persone. A volte non c’è neanche bisogno di un caporale per trasformare un uomo, una donna, in cavallo da soma. Basta l’orario sterminato e continuo di ore lavorate, la tensione degli obiettivi folli da raggiungere. Si diventa come schiavi.

Eldar Shafir, psicologo comportamentale di Princeton autore di “Scarcity”, in un forum della Camera di Commercio di Udine, qualche giorno fa, ha sottolineato come la povertà induca a scelte sbagliate, e l’errore a sua volta approfondisca lo stato di povertà. Una spirale perversa. Ma la “scarsità” non riguarda solo il denaro, anche i soldi e il tempo. Il tempo che incombe, che non finisce mai o finisce troppo presto, e i soldi che non bastano più, e tutto quello che ci viene chiesto di troppo (o che da noi si pretende).

Ma la morte che non si può accettare è quella per fatica unita alla truffa e allo sfruttamento. La morte di ultracinquantenni, donne e immigrati che tirano fino a scoppiare nei campi assolati della Puglia d’estate, dopo viaggi di 300 chilometri per raggiungere i poderi, e un impegno che va dalle 3.30 del mattino alle 15.30. Lungo un numero inconcepibile di ore, che però al momento della paga non vengono riconosciute, anzi drasticamente ridotte. E ne risultano molte meno, e indennità di trasferta e straordinari spariscono magicamente, assorbite fino ad abbassare la paga a 30 euro al giorno per un giorno che ne vale due, rispetto agli 86 dovuti. E niente igiene, nessuna garanzia. E, soprattutto, un clima terribile di ricatto.

Paola Clemente non ce l’ha fatta. Infarto da troppa fatica. La necessità di accettare tanto lavoro e compensi ben sotto il minimo perché l’alternativa sarebbe stata l’esclusione. La fila era lunga. Il lavoro manca e tanti sono disposti a farsi arruolare al ribasso. Dev’essere addirittura considerata una fortuna rientrare fra i braccianti sottoposti alla tortura del lavoro nei campi in quelle condizioni. Nel caso di Paola, si trattava di togliere dall’uva gli acini piccoli (acinellatura, si chiama) sotto un tendone nelle campagne di Andria per ore e ore, in piena estate.

Se ne parla adesso perché grazie alla nuova legge sul caporalato sono stati arrestati tutti i presunti responsabili del suo martirio. Dal titolare della ditta addetta al trasporto, ai dipendenti di un’agenzia di lavoro interinale di Noicattaro nel Barese, alla donna che aveva il compito di vigilare sul lavoro. Decisivo lo stato di bisogno del bracciante, definito ormai dalla giurisprudenza consolidata come “stato di necessità tendenzialmente irreversibile, non tale da annientare in modo assoluto qualunque libertà di scelta, ma che comunque, comportando un impellente assillo, compromette fortemente la libertà contrattuale del soggetto”.  

L’altro aspetto significativo dell’inchiesta è stata la rottura del muro di omertà. Decine di braccianti sono stati interrogati e la gran parte aveva paura di raccontare. Paura di perdere quel lavoro che era quanto di più vicino alla moderna schiavitù.

La letteratura mondiale è piena di storie atroci di morti per fatica e sfruttamento del lavoro, dall’India alle sperdute lande agricole degli Stati Uniti. Ma nel chiuso degli uffici altre situazioni si colorano in più di ricatti indicibili e soprusi di ogni genere, di violenze anche sessuali. Di fronte a questi reati, che vanno smascherati ed è molto difficile scoprirli e punirli perché (come nel caso di Paola) camuffati dalla regolarità formale delle scartoffie, non dev’esserci pietà.

Nulla è peggio che far leva sul bisogno per trasformare una donna, un uomo, spesso anche un bambino, in uno schiavo o quasi. Nulla contraddice più platealmente la diversità del nostro mondo “occidentale” quale dovrebbe essere in base ai valori che rivendichiamo (rispetto dell’uomo e dei suoi diritti), di questa piaga che finalmente leggi più severe aiutano a colpire. E allora: pugno duro della legge e avanti così!

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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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